Siamo nell’epoca del litigio continuo. Ma non è una cattiva notizia




tratto da La disputa felice


C’è un disagio che si snoda in ogni parte della nostra società: il litigio continuo. Litighiamo sui social, litighiamo in strada, litighiamo in tv e sui giornali, si litiga nei video di risposta su Tiktok. Il litigio sembra ormai il modo più comune per affrontare qualsiasi questione della vita. Siamo spettatori o protagonisti di discussioni continue, in cui spendiamo tempo ed energie; però, alla fine, non ne siamo felici. Ne siamo sempre più stanchi, insoddisfatti, stufi.

Siamo sempre connessi ed è impossibile vivere in mondi del tutto separati. Le differenze di opinione e di prospettiva fioccano nei nostri feed, nelle notifiche, nelle clip dei programmi tv che, ritagliate, affiorano tramite gli algoritmi di raccomandazione. Anche senza volerlo siamo automaticamente esposti sempre a qualche visione della realtà che non ci piace e su cui non siamo d’accordo.

La diversità, che prima era un’esperienza specifica nella vita, è diventata un aspetto ordinario della realtà. Viviamo in un’epoca che ci sta chiedendo livelli mai visti prima di avvicinamento all’estraneo e di accettazione di un ventaglio di differenze sempre più ampio. Sia dal punto di vista dell’incontro tra culture diverse – perché la cultura non coincide più con il territorio – sia dal punto di vista del confronto con l’altro accanto a noi: anche nella comunicazione tra appartenenti alla stessa cultura esiste sempre una differenza di visione.

L’online ci ha sbattuto in faccia ciò che prima potevamo anche risparmiarci. L’ignoranza, l’aggressività, la violenza verbale, non sono più circoscritte da limiti di spazio e tempo, ma affiorano su larga scala, rimangono scritte nero su bianco sugli schermi degli smartphone. Sono misurabili e quantificabili nei commenti che popolano il web, giacché chiunque, senza chiedere permesso, scrive tutto ciò che gli passa per la testa.

Un momento di libertà

Quando mondi diversissimi tra loro si incontrano, quello che accade è un momento di grande libertà: un essere umano si incontra con un altro essere umano, i loro linguaggi, i loro giudizi e pregiudizi si confrontano. Non ci sono le regole e le convenzioni del proprio mondo a tutelare ciascuno. Le sovrastrutture diventano poco efficaci. A confrontarsi rimane solo l’umanità tout court e con essa la possibilità di interpellare l’intelligenza o gli istinti più bassi dell’interlocutore. Il punto è che questa libertà fa paura.

In ballo c’è l’opportunità di trovare una pace che favorisca la comprensione o alimentare un conflitto che crea una divergenza inconciliabile. E tutto deve e può essere guadagnato solo sul campo: quando due mondi distanti si incontrano non esistono ruoli e posizioni, perché i ruoli e le posizioni sono riconosciuti diversamente da ciascuno dei mondi.

Può sembrare uno scenario terrificante, e invece è una grande occasione. Perché rimaniamo liberi. Possiamo confonderci al massimo, reagendo e provando odio per ciò che ci contraddice e per chi dissente; oppure possiamo scoprire che confrontarsi con il “diverso” e mettere alla prova le nostre informazioni e convinzioni è un’opportunità per capire quanto siamo effettivamente consapevoli di ciò che conosciamo (o presumiamo di conoscere).

Immersi in un mare di informazioni contraddittorie

Il mare di informazioni contradditorie è ormai il nostro ambiente vitale abituale. Non abbiamo alcuna possibilità di esserne preservati, abbiamo invece bisogno di strumenti culturali adeguati per imparare a viverci in modo proficuo.

Cosa ci spaventa? Il ritorno in primo piano della intenzionalità e della scelta. Due cose che non competono a nessun mediatore né autorità, che non possono essere imposte né controllate: spettano solo alla libera iniziativa di ciascuno. Le fake news, l’odio in rete e l’apparente caos creato dal sovraccarico informativo sono sintomi, non di una malattia ma di una realtà: dobbiamo trovare strade per vivere all’altezza della grande libertà che ci siamo procurati. È un’ottima notizia.

La vera rivoluzione del web è questa: gli hater, la disinformazione congenita, le polarizzazioni, sono la riprova che i mondi in connessione scuotono i loro appartenenti, che cercano di difendersi conservando come possono lo status precedente, unendosi tra loro e chiudendosi in fortezze che ricalchino il più possibile le certezze dei mondi da cui provengono.

Con i dispositivi in mano, senza difese

Il problema non è solo orizzontale – tra cittadini di pari livello ancorché di diverse provenienze – ma anche verticale: la politica come la intendevamo un tempo è in grandissima crisi, le istituzioni non sono più rispettate come tali, i mezzi di comunicazione classici fanno fatica a mantenere il loro ruolo di affidabilità informativa. L’altro, in sostanza, è sempre più vicino, non è più altrove.

Le tecnologie digitali ci stanno spogliando di tante sovrastrutture che, tutto sommato, facevano comodo. Con i nostri dispositivi in mano non abbiamo difese: ci siamo noi con quello che siamo o che non siamo, con ciò che sappiamo o non sappiamo. Dall’altro lato, potenzialmente, c’è il resto del mondo a cui dobbiamo dimostrare – se abbiamo qualcosa da dire – di sapere come dirlo. Saper comunicare è una competenza non più solo per mediatori culturali, traduttori e comunicatori, ma per ogni persona.

Non abbiamo imparato a disputare. Non lo abbimao studiato a scuola. In famiglia e nei nostri contesti sociali ristretti non è detto che ne abbiamo avuto occasione. Eppure tutti, da quando abbiamo uno smartphone in mano, siamo gettati in un dibattito pubblico complesso e plurale in mezzo a interlocutori molto diversi.

Essere pienamente umani, nel digitale

Se ci pensiamo bene – proprio per il fatto che questo è il momento in cui i nostri peggiori difetti possono venir fuori – è anche la più grande occasione di essere pienamente umani. Quando iniziamo a interagire con altri su temi che riteniamo fondamentali, siamo liberi. Sta a noi decidere come impostare questi incontri tra persone, per trasformarli in relazioni piene di senso o in alterchi pieni di smarrimento.

Anticamente si diceva che una cosa la si conosce davvero quando la si insegna a un altro. Era una società in cui pochi potevano permettersi il lusso dell’erudizione e ancora meno potevano fare gli insegnanti. Poi sono arrivati i mass media e la Tv: la cultura televisiva ha formulato la massima per cui si comunica bene quando ci si fa capire da un ragazzo di 12 anni. Anche qui un mondo tutto sommato semplice in cui gli spazi mediatici e i canali, per quanto numerosi, erano quantitativamente limitati.

Oggi, nell’epoca della disputa generalizzata, in cui ognuno ha spazio per intervenire, per insegnare, per dire qualcosa senza filtri, occorre correggere queste prospettive, aggiungendo quella cruciale: per capire e conoscere una cosa devi saperla spiegare anzitutto a chi non è d’accordo. La sfida della comunicazione non è più nelle asimmetrie sapere/non sapere o complessità/semplicità; la comunicazione si gioca ormai sul fatto che tutti sono sullo stesso piano. Allora, per farsi capire, occorre lavorare su un livello radicalmente simmetrico: quello della relazione con la diversità dell’altro.

Dissentire senza litigare

Dissentire senza litigare non solo è possibile ma è ormai l’unica via per imparare qualcosa: tramontato definitivamente il mito del pensatore solitario, che scruta il mondo nella solitudine del suo intelletto, è iniziata l’era della disputa generalizzata, che è il modo più ordinario di acquisire conoscenze in una realtà fatta di “mondi in connessione”.

La questione è fondamentale. Le decisioni migliori nascono dal disaccordo e dalle idee divergenti. È in quegli scomodi momenti di dissenso, infatti, che le idee e le argomentazioni si possono purificare da doppi fini, convenienze, piaggerie, partigianerie, manipolazioni, ecc. Quando si è uno di fronte all’altro, onestamente, in disaccordo, ci si aiuta ad andare all’essenza di ciò che riteniamo dotato di senso. Senza il confronto invece, quando si sta sempre tra condiscendenti, si finisce per vivere di imitazione e di conformismo.

Disputare è l’atto libero dell’uomo che ha fiducia nella sua capacità di farsi capire ma anche di riconoscere l’altro, convinto che per scoprire qualcosa è inevitabile questo “incontro”.