Il nostro rapporto con la tecnologia
venerdì 13 ottobre 2023
Come dibattere in rete: conversazione con Vincenzo Cosenza
lunedì 2 ottobre 2023
Con Vincenzo Cosenza abbiamo fatto una bella chiacchierata su discussioni, litigi e confronti online e offline. La conversazione può essere un ottimo strumento per coinvolgere le persone sui social media, ma va impostata nel modo giusto. Come affrontare i troll e i dibattiti online (e non solo)?
Ecco l'indice dei contenuti del video: 0:00 Introduzione 0:30 Perché hai scritto "Storia sentimentale del telefono" 2:45 Come discutiamo oggi al telefono e cosa è cambiato rispetto al passato? 6:32 Tu hai scritto “La disputa felice” e teorizzi la bellezza della disputa. Perché è utile? 10:03 Perché non ci piacciono le dispute, i dibattiti con l'altro? 12:53 Vale sempre la pena di ingaggiare una disputa? Cosa fare con i troll? 15:57 Non avere la verità in tasca è il miglior modo per affrontare le discussioni? 19:20 Una tua valutazione sulla comunicazione delle aziende in rete 22:15 Nella futura rete tridimensionale come cambierà la socialità?La risposta pronta: come gestire i conflitti di comunicazione online e offline
giovedì 30 marzo 2023
"Mi piace chi sceglie con cura le parole da non dire" diceva Alda Merini. È la chiave per capire gli errori che facciamo quando litighiamo online e offline. Quali sono le mosse scomposte più tipiche? Perché certe frasi ci fanno saltare i nervi? Come imparare ad ascoltare sé stessi e gli altri per capire quando intervenire e come? Avere la risposta pronta non è un sogno, ma un'abilità che si può acquisire. A patto di saper riconoscere cosa (e quando) è meglio non dire.
Una conferenza per STEP FuturAbility District. Guarda il video completo.
Telefono e smartphone al TG1
giovedì 9 febbraio 2023
Dibattiti online: come si fanno?
giovedì 3 novembre 2022
Botte da social - Radio CICAP
giovedì 6 ottobre 2022
Tutti i giorni nascono nuove discussioni sui social network. Non farsi coinvolgere ANIMOSAMENTE! è molto difficile. Si può invece renderle proficue? Esistono modi per evitare di rendere tossica una discussione? Ne abbiamo parlato con Bruno Mastroianni, filosofo, social media strategist per rai-play e rai-teche e docente di argomentazione digitale all’università di Padova, per capire come rendere i dibattiti costruttivi e soprattutto come evitare i triceratopi che si aggirano nel web.
Come e perché fallisce una discussione? Fenomenologia del litigio
martedì 23 agosto 2022
estratto da Bruno Mastroianni, AgendaDigitale.eu, 24.6.22
Partiamo con un percorso inverso: osserviamo ciò che non funziona in una discussione e proviamo a mettere a fuoco ciò su cui si potrebbe intervenire per risanare gli scambi deragliati.
Qualche settimana fa, nella trasmissione “Cartabianca” di Rai3, Alessandro Orsini, docente di sociologia alla Luiss, e Andrea Ruggeri, deputato di Forza Italia, sono stati protagonisti di un duro scontro verbale.La discussione verteva sulla questione della guerra in Ucraina e la posizione di Putin nei confronti della Nato. Uno scambio che, sulla carta, aveva tutti i crismi per funzionare: due interlocutori titolati a parlarne e dotati di tutte le competenze necessarie e sufficienti per argomentare sulla questione.
A un certo punto del confronto, però, qualcosa va storto e l’interazione smette di essere un argomentare e controargomentare e diventa un litigio, ponendo di fatto fine al confronto.
Riporto quali sono stati, più o meno, alcuni degli ultimi passaggi dell’interazione:
- Orsini: “Quello che sto dicendo è che se noi gli mettiamo i “soldatini” e i carriarmati al confine, non va bene per l’Italia”.
- Ruggeri: “Senta non è che siamo dei minus habentes, lei è sicuramente un uomo intelligente non c’è bisogno di fare “i disegnini”… “i soldatini”, non è che siamo tutti più scemi di lei, professore”.
- Orsini: “Nel suo caso qualche dubbio lo avrei!”
- Ruggeri: “Probabilmente ha ragione. Le spiego perché. Io ho lavorato tredici anni in televisione, di gente frustrata come lei che spara qualunque cosa pur di farsi riconoscere al supermercato ne ho visti a decine. Lei è un “vorrei ma non posso” nella vita che cerca di farsi riconoscere per strada. Io rappresento qualcuno, seppur indegnamente, lei non rappresenta nessuno; quindi stia buono al suo posto. Questo è il pupazzo che diceva che nel 2018 avremmo subìto un attentato dell’Isis…”
- Orsini: “Lei è un bugiardo. Lei è un disonesto. Quel video è tagliato.”
- Ruggeri: “È un complotto? Di Chi?”
- Orsini: “Le voglio spiegare perché lei è un cretino. Quel video è tagliato, è un falso”.
Dal discutere sulla questione da cui si era partiti, ciascun interlocutore è passato ad attaccare l’altro sul personale. È accaduto cioè uno spostamento del disaccordo dal contenuto della discussione alla relazione tra i due contendenti (Wazlawick 1971, pp.73-74). Tanto che il tema iniziale è scomparso completamente dal discorso di entrambi. Non si discutono più le idee, ma di come le persone coinvolte si presentano inadeguate allo scambio.
Dal litigio alla perdita di fiducia nel dibattito
Vorrei osservare almeno tre effetti che questo tipo di fallimento di una discussione porta con sé (una trattazione più estesa del tema in Mastroianni, 2020).
Il primo, come abbiamo visto, è la perdita del tema oggetto di discussione: si smette di discutere e di argomentare su ciò da cui si era partiti nel confronto e si passa a criticare i comportamenti dell’interlocutore nel dibattito.
Il secondo effetto lo definirei di trasparenza: mentre i due si accusano a vicenda e vanno allo scontro, mostrano a chi assiste alla discussione alcuni loro aspetti caratteriali e di atteggiamento (negativi in questo caso) privi dell’abituale filtro sociale che avrebbe fatto mantenere loro il controllo delle proprie reazioni. In questo caso i due protagonisti finiscono in una sorta di gara infantile per dimostrare chi è il migliore.
Il terzo effetto, che è quello più grave, è la spettacolarità. Chi osserva due persone che si scontrano può provare una forma di piacere. La soddisfazione di vedere uno sovrastare l’altro, grazie alla aggressività delle espressioni più che per la forza delle argomentazioni, secondo dinamiche tipiche di dominanza e discredito (D’Errico & Poggi, 2010).
Questo tipo di soddisfazione può essere ricondotta a quelli che Aristotele definisce piaceri deplorevoli o distraenti (Aristotele, 1175b, 1173b) che non portano cioè verso il bene dell’azione in oggetto (in questo caso una discussione) ma distolgono da essa.
Ora il punto è che nel partecipare a questo spettacolo che provoca un piacere distraente o deplorevole si paga un biglietto molto salato che è la perdita di fiducia (Mastroianni 2020, p. 27-29). Gli effetti, infatti, dello spostamento del focus dalla discussione alla messa in discussione dei disputanti produce una perdita di fiducia nel dibattito: a forza di perdere per strada i temi, si ha la sensazione che non si possa davvero discutere.
Il caso riportato, come molti che si possono osservare online e offline, aggiunge un ulteriore carico su questa triplice sfiducia perché la dinamica si genera tra un esperto e un politico, cioè personaggi pubblici, titolati e che ricoprono un ruolo nella società. I comuni cittadini che assistono si sentiranno a maggior ragione fiaccati nella possibilità di intrattenere discussioni significative.
Si nota insomma come in questo scambio ciò che viene a mancare da parte degli argomentatori è la dedizione al tema (cioè il continuare ad argomentare nel merito) e il distacco da sé (non finire su un piano personale e ad hominem).
Il punto che vorrei sottolineare è che i due disputanti non compiono solo scorrettezze argomentative, ma è come se dimenticassero la reale posta in gioco: il possibile bene che poteva derivare dal confronto, sia per loro come contendenti, sia nei confronti del numeroso pubblico che assiste alla loro discussione, il quale non sta più ottenendo benefici in termini di migliore conoscenza e messa a fuoco dell’argomento.
In altre parole, questo esempio, che è solo uno tra i tanti possibili, ci mostra che una discussione non fallisce solo sul piano dell’argomento (che si è perso per strada ed è entrato su un terreno puramente ad hominem), non fallisce nemmeno solo sul piano dell’argomentare (che è diventato un denunciare le presunte inadeguatezze dell’altro), ma la pienezza del suo fallimento si può davvero capire solo se la si giudica dal punto di vista del bene in gioco per gli attori coinvolti, che non sono solo i due disputanti, ma anche tutti gli altri astanti che, pur senza intervenire, hanno un ruolo attivo nella discussione (Cohen 2013).
Che cosa è la diversità aumentata che ci fa litigare tutti sui social network
mercoledì 4 maggio 2022
“La diversità è diventata un aspetto ordinario della realtà” spiega Mastroianni. “Accade in una chat su WhatsApp di genitori della scuola, dove ci appaiono tutte le divergenze, per iscritto, continuamente e senza limiti di tempo e di spazio. Così come la realtà aumentata arricchisce attraverso il digitale le nostre percezioni del reale mediante informazioni e dati, l’essere iperconnessi nella onlife porta a un incontro/scontro amplificato con le differenze degli altri, che vengono percepite molto più vicine di quanto non sarebbero nella convivenza fisica”.
Come hai iniziato a occuparti di litigi e di dispute felici, e perché ne hai fatto un argomento di lavoro?
Il primo motivo è personale: fin da giovanissimo ho sempre avuto la passione per la discussione, ma mi sono ritrovato spesso in preda a emozioni negative e a difficoltà di espressione che rendevano difficile il farmi capire dagli altri. Insomma, sono sempre stato un tipo litigioso. La voglia di migliorare il modo di “dire la mia” mi ha spinto a interessarmi del tema. Il secondo ha a che fare con i miei studi filosofici: il gusto di mettere alla prova le idee e di cercare il più possibile il confronto con gli altri ha fatto sorgere in me l’interesse per come queste dinamiche possano favorire o compromettere la riflessione. Infine la passione per la tecnologia: quando i confronti diventano digitali e connessi, le cose si complicano ulteriormente. Con i social il tema è esploso diventando il centro delle mie attenzioni.
L’infodemia fomenta il litigio o litigheremmo benissimo anche senza l’eccesso di informazioni che genera confusione, tipico dei nostri tempi?
Diciamo che il litigio se la cava bene anche senza infodemia. Il mal discutere è “naturale”, fa parte della condizione umana: nessuno nasce predisposto al confronto sano, è una qualità che va coltivata e fatta crescere con la formazione e l’esercizio. L’infodemia aumenta gli stimoli negativi e le pressioni cognitive che compromettono il confronto. Insomma il litigio non è un prodotto dell’infodemia: se pure fossimo in un mondo perfetto, senza disinformazione, litigheremmo lo stesso.
Quanto è difficile stare zitti mentre tutto congiura per farci parlare di qualsiasi cosa?
È difficile perché la congiura parte da dentro ancora prima che da fuori: tendiamo a pensare che l’espressione della nostra opinione in pubblico sia un atto necessario a farci esistere e considerare dagli altri. In questo ci illudiamo che più diciamo e più ci faremo notare. In realtà va a finire che perdiamo mordente: le persone riconoscibili sono quelle che parlano poco e bene, quando serve davvero. Nelle discussioni chi è capace di dire “questo non lo so”, “ho bisogno di pensarci”, “non è il mio campo”, perde magari un turno, ma guadagna in credibilità (che è la via maestra per farsi ascoltare davvero).
Quanto, sui social network, il litigio è frutto dei famosi algoritmi che spingono alla polarizzazione, e quanto invece è responsabilità nostra?
È un cappuccino. Mi spiego: la bevanda non è fatta semplicemente di latte più caffè, ma di uno specifico mix dei due ingredienti, ciascuno che contribuisce in precise dosi e modalità a rendere la bevanda unica. La tendenza umana al mal discutere e gli algoritmi che spingono alla conferma delle proprie idee e alla coesione con gli affini sono come il latte e il caffè del cappuccino. Si uniscono così bene da dare forza l’uno all’effetto dell’altro. Il che vuol dire che per correggere la tendenza vanno migliorati sia il “latte umano” che il “caffè tecnologico”, ma soprattutto il loro miscuglio.
Quella "fallacia dei giovani d'oggi" che ostacola di dialogo intergenerazionale
sabato 23 aprile 2022
di Bruno Mastroianni, ExAgere, aprile 2022
La fallacia dei giovani d’oggi consiste in un gruppo di espressioni che si nutre di una serie di fallacie impiegate a seconda delle situazioni, tutte accomunate da un riferimento di fondo sottostante: dare per scontato che gli appartenenti alla generazione successiva abbiano qualcosa di meno rispetto a quella precedente che parla.
Come sempre accade per le fallacie, siamo di fronte a pseudo-ragionamenti che apparentemente sembrano convincenti, ma che in realtà affermano qualcosa che non dimostrano[2]. Dal punto di vista pragmatico la fallacia dei giovani d’oggi è caratterizzata da elementi presupposti – tutti sanno che i giovani si comportano in un modo peggiore rispetto al passato – ed elementi implicati – questi comportamenti li rendono particolarmente inadeguati alla vita odierna.
In altre parole, quando qualcuno fa un’affermazione del tipo “i giovani oggi sono più superficiali perché stanno sempre sui social” difficilmente suscita lo stesso livello di resistenza e di richiesta di prove a sostegno che susciterebbe l’affermazione contraria: “oggi i giovani mostrano consapevolezza e sono capaci di pratiche comunicative proficue proprio grazie alle tecnologie”. Se ci fosse una reale simmetria argomentativa, entrambe le affermazioni richiederebbero prove a supporto di ciò che sostengono, anche perché probabilmente ci saranno elementi che fondano ciascuna delle due prospettive all’interno di un quadro complesso che descrive i comportamenti della gioventù. Di fatto, però, c’è una certa tendenza a concentrarsi di più sul controllo dell’attendibilità della seconda rispetto alla prima.
L’asimmetria, insomma, mostra che l’uso consolidato di questa fallacia corrisponde a un preciso stato mentale e atteggiamento verso la realtà, in cui i giovani d’oggi diventano una sorta di elemento retorico utilizzato per rappresentare una certa posizione nei confronti del mondo.
A questo proposito è interessante ciò che scrive Douglas Adams:
“Ho trovato tre regole che descrivono le nostre reazioni alla tecnologia:
1. Qualunque cosa esista nel mondo quando nasciamo, ci pare normale e usuale e riteniamo che faccia per natura parte del funzionamento dell’universo.
2. Qualunque cosa sia stata inventata nel ventennio intercorso tra i nostri quindici e i nostri trentacinque anni è nuova ed entusiasmante e rivoluzionaria e forse rappresenta un campo in cui possiamo far carriera.
3. Qualunque cosa sia stata inventata dopo che abbiamo compiuto trentacinque anni va contro l’ordine naturale delle cose[8].
Drehe sostiene che le fallacie si possono far risalire all’incontinenza in senso Aristotelico[9]. Quella dinamica secondo cui, al momento di una scelta, anche se un essere umano è consapevole che una certa azione non gli procurerà un bene (in questo caso un’argomentazione priva di reale consistenza) la compie lo stesso per debolezza. L’esempio per eccellenza è lo zucchero per una persona in sovrappeso: sa che gli farà male e lo farà ingrassare, eppure lo mangia ugualmente per il piacere che ne deriva.
La fallacia dei giovani d’oggi ha una funzione simile allo zucchero: solleva da qualcosa, consola dal vedere in faccia una realtà che in qualche modo è difficile e impegnativo sopportare. Scaricare sui giovani alcune inadeguatezze presupposte e non dimostrate è un modo per distanziare sé stessi dalle sfide attuali e nuove a cui l’evoluzione della società – e in particolare della tecnologia – sottopone tutti, al di là dell’età che hanno. Attraverso la fallacia dei giovani d’oggi si riesce a compensare un’asimmetria profonda che l’adulto riscontra nella sua vita non più giovane: la sensazione che nel mondo in cambiamento i suoi punti di riferimento assodati non siano più così performanti nel dare risposte all’altezza delle nuove sfide.
Timore per la differenza
Come in ogni disputa che sfocia in litigio, a creare la tensione che porta ad attaccare l’altro è l’avvertimento di una differenza[10]. L’adulto percepisce di aver vissuto e consolidato i suoi comportamenti in un mondo differente e vede nel modo diverso di procedere del giovane qualcosa che minaccia la sua identità e il suo posto nel mondo. C’è, insomma, una questione che può spaventare e far scattare meccanismi di dominanza e discredito[11] che non a caso operano da tanti secoli attraverso la fallacia dei giovani d’oggi. Il fenomeno, infatti, si può registrare anche in un’ottica storica. Le invettive contro i costumi degradati dei giovani corrono lungo tutta la storia del pensiero. Ad esempio, il noto passaggio di Platone: “Oggi il padre teme i figli. I figli si credono uguali al padre e non hanno né rispetto né stima per i genitori. Ciò che essi vogliono è essere liberi. Il professore ha paura degli allievi, gli allievi insultano i professori; i giovani esigono immediatamente il posto degli anziani (…)”[12]. C’è anche chi si è cimentato a raccogliere le diverse invettive che nel corso della storia sono state rivolte ai giovani[13], mostrando che, da sempre, non importa da quale epoca si parta, sembra che le generazioni successive presentino caratteristiche inferiori e degradate rispetto alle precedenti.
È il timore di riconoscere quanto i giovani siano una versione differente e aggiornata, più performante perché tendenzialmente più pronta a accogliere le novità, rispetto a quello che gli adulti sono stati[14]. Si dimentica che ogni tradizione ha avuto il suo stadio giovanile. Se non fosse stato per la carica innovativa, creativa, rivoluzionaria non sarebbero nate le tradizioni, da cui altri giovani oggi si discostano.
Quello che l'elezione del Presidente ci insegna sulle discussioni reali
martedì 25 gennaio 2022
La prima tentazione, lo ammetto, è stata lo sconforto, lo sdegno, il farmi trascinare dal pessimismo e fastidio che inevitabilmente respiro sorbendomi il gigantesco flusso dei commenti sui social e delle reazioni della gente. Sì perché anche al bar o nella (poca) vita sociale, dopo 16 ore di notizie al giorno sul Quirinale, alla fine non fai altro che parlare di quello.
Ma poi sono rinsavito. Sì perché, a un certo punto, ho iniziato a guardare la situazione da un punto di vista meno presuntuoso, più umile e aderente alla realtà. Ho notato, infatti, che nelle nostre esternazioni indignate sono all’opera una serie di riflessi idealistici e aspettative esageratamente perfezioniste su come dovrebbero andare le cose.
È un atteggiamento che ho registrato più volte nei confronti di qualsiasi discussione: tendiamo a giudicare i confronti molto peggio di quanto non siano, perché ci aspettiamo che assumano la forma di relazioni angeliche tra intelletti superiori capaci di fare tutte le mosse adeguate e rispettose per capirsi e trovare una mediazione. È curioso che nessuno di noi in vita sua abbia mai assistito a una discussione simile. Ogni tipo di articolazione del dissenso, infatti, è sempre sbilenca, imperfetta, farraginosa e faticosa.
Eppure pretendiamo che, per decidere una cosa così complessa come la futura massima carica dello Stato, le cose vadano in modo diverso. È come se avessimo un metro di giudizio così alto da scontentarci comunque e sempre, al di là di come si mettano le cose.
Insomma, credo che quello a cui stiamo assistendo sia proprio un esempio particolarmente interessante di discussione reale e come tale va preso. Anche perché non appena si abbandona lo sguardo severo e astratto, appaiono una serie di spunti piuttosto significativi.
Quelli che sto notando in queste ore sono fondamentalmente tre:
1. In democrazia la forma è sostanza: non bastano i risultati, quello che conta è il processo attraverso cui i risultati si raggiungono. Quello che stiamo vedendo accadere è dovuto al fatto che a essere rilevante non è l’accordo tra le forze in sé, ma il percorso che porterà a quell’accordo. Sarà esso a dare forma e sostanza all’Italia del prossimo futuro. Il percorso – che piaccia no, che sia bello o brutto, faticoso o meno – va fatto tutto.
2. La democrazia si giudica da come si articola il dissenso, non solo da quanto pesa il consenso. Finché si va tutti d’accordo non si ved bene come stanno le cose. Appena è sorta la “questione Quirinale” è apparso più chiaro a che punto eravamo davvero. Può infastidire, perché non è gradevole ciò che si vede, ma è meglio che rimanere annebbiati. Guardare dove sta il dissenso è la pista migliore per avvicinarsi alla realtà di una situazione.
3. In democrazia l’orizzonte non può che essere il provvisorio, l’approssimativo, il “fin qui” che sono le uniche categorie che ammettono la libertà e la partecipazione. Guai a pretendere l’universale, il durevole o la parola “fine”: tutti orizzonti incompatibili con le due dimensioni precedenti. Nei regimi, infatti, i risultati non hanno bisogno di processi (chi decide ottiene e non rende conto a nessuno), il dissenso non ha spazio (si silenzia, non c’è bisogno di articolarlo), ma soprattutto ogni cosa è definita, universalmente valida, chiusa, impacchettata, non discutibile appunto.
Ora, se sostituiamo alla parola “democrazia” la parola “discussione” ci accorgiamo che sono analoghe quanto alla struttura fondamentale attraverso cui giudicarle. La discussione “così come è” (depurata da sguardi troppo idealistici) ci può insegnare molto più di quanto sembra sul nostro modo di entrare in relazione quando abbiamo prospettive e visioni differenti.
Le dispute reali, quelle che facciamo tutti i giorni, si possono giudicare proprio secondo gli stessi tre criteri che emergono da questa macro discussione sul futuro Presidente:
- Si punta ad avere ragione (il risultato) o si è disposti a fare il percorso che porta a rendere convincente e accettabile agli occhi degli altri la propria opinione?
- Dove sta il dissenso? Emerge, trova ascolto, porta a modificare le argomentazioni? È da quello che si può giudicare il reale valore del confronto.
- Ciò che guida lo scambio è il porre fine a una questione o la disposizione a muoversi non sapendo prima dove si andrà a parare? Senza l’apertura ad approssimazioni successive siamo di fronte a pure affermazioni sorde di verità concluse che non necessitano dell’intervento di nessuno.
Aggiungerei un ultimo criterio che, lo so, può suonare scioccante in questo momento, ma va affrontato: le discussioni talvolta possono avere come unico esito uno stallo che non porta da nessuna parte. Anche in quel caso avranno avuto comunque una funzione: far capire che non c’è verso di trovare un accordo.
Per tutto il resto c’è il sogno di discussioni perfette, ideali e angeliche, a cui però non potremmo assistere almeno finché viviamo da questo lato “terreno”dell’esistenza.
"Fin qui", "perché", "meraviglia": tre criteri per migliorare le discussioni online
giovedì 13 gennaio 2022
Qualche giorno fa era l'anniversario della nascita del primo iPhone. Quindici anni di schermo "col tocco" eppure abbiamo ancora poco tatto nell'usarlo. Presi, infatti, dalla connessione costante e dalla diversità aumentata, di solito siamo più propensi allo scontro che al confronto. Il risultato: finire col dare la colpa a questo mirabolante alleato invece di concentrarci sul vero protagonista dei problemi di comunicazione, cioè noi stessi.
È tempo più di propositi che di bilanci. Ne propongo tre, immediatamente applicabili alle nostre conversazioni digitali per renderle più sostenibili e meno funeste:
- non dire "fine", ma usare "fin qui";
- usare di più i "perché";
- riscoprire la "meraviglia".
Vediamoli uno alla volta.
1. Fin qui
Uno dei principali problemi delle nostre discussioni è che ci lanciamo in esse con l'intento di avere l'ultima parola, di esaurire gli argomenti, di chiudere le questioni. Questa ansia di voler mettere la parola "fine" è spesso quella che ci porta a fare affermazioni nette, spesso con posizioni più radicali di quanto non lo siano veramente nelle nostre opinioni.
Allora, come insegna il mio maestro Adelino Cattani, occorre rinunciare alla parola "fine" e rivolgersi piuttosto al "fin qui". Cioè discutere accettando fin dall'inizio che, per quanto l'abbiamo detta bene, ci sarà sempre qualcos'altro da aggiungere. Essere disposti cioè a discutere in modo provvisorio e aperti alla revisione. "Scrivere online in forma di bozza permanente", dice Eduardo Arriagada, con l'idea che si esporrà quanto si pensa "fin qui" e poi si vedrà dove si arriverà successivamente, senza patemi d'animo.
Il "fin qui" è anche un ottimo criterio per smettere di discutere e non andare all'infinito nei botta e risposta. È accettare che un confronto può arrivare fino a un certo punto, poi si potrà eventualmente riprendere in seguito. Non deve sempre essere tutto definitivamente concluso a ogni scambio. A volte si può anche interrompere una disputa in un pacifico stallo di disaccordo.
2. I perché
Le discussioni online sono piene di giudizi formulati in modo apodittico, cioè privi delle ragioni che li supportino, come se fossero auto-evidenti. Quante volte scriviamo cose del tipo: "quello che dici non mi convince", "le cose non stanno affatto così", "sarebbe meglio se optassimo per quest'altra opzione". Tutte affermazioni che suscitano reazioni stizzite per un motivo molto semplice: mancano i perché.
Senza i perché le affermazioni assumono la forma di un attacco personale che fa sentire giudicati negativamente. Se ci sforzassimo di esplicitare sempre i perché che animano le nostre convinzioni, le discussioni diventerebbero migliori. Offrire sempre i motivi, le ragioni e le cause che spingono a sostenere un'opinione dà all'altro il segnale che vogliamo veramente discutere di qualcosa.
Provare per credere: la prossima volta che vuoi sollevare un dissenso prova a esprimerlo spiegando bene perché lo sollevi. Ti accorgerai che spesso non hai delle ragioni così solide, e quindi mitigherai i tuoi interventi; oppure scoprirai di avere delle argomentazioni convincenti e, a quel punto, ti concentrerai su quelle e non avrai bisogno di aggredire.
Il criterio dei perché funziona anche in senso passivo. Quando riceviamo giudizi sprezzanti del tipo "le cose non stanno affatto così", invece di lanciarci a dare risposte che difendano le nostre tesi, faremo il contrario: chiederemo semplicemente "perché?". La maggior parte delle volte questa domanda è la più efficace delle risposte. Lascia all'altro l'onere di esplicitare il merito della critica senza fermarsi alla provocazione del giudizio negativo. Se escono ragioni e prove, si potrà proseguire a discutere. Se non ce ne saranno, allora si tornerà al "fin qui" che certifica quanto non convienga proseguire.
3. La meraviglia
"Già so dove vuoi andare a parare...", quante volte è quello che abbiamo in mente mentre discutiamo con qualcuno. È il problema dell'anticipazione del pensiero altrui, una forma di difesa mentale che adottiamo per prevenire attacchi e critiche. Crediamo di poter presumere quello che vuole dirci l'altro per essere pronti a ribattere.
Il problema è che così facendo ci perdiamo il meglio delle discussioni. Perché se possiamo sapere sempre come iniziano i diverbi, non possiamo mai davvero sapere dove porteranno. Allora qui va rispolverato il concetto aristotelico della "meraviglia": la capacità di stupirsi per ciò che non conosciamo e che ci spinge a volerne sapere di più.
Chi segue la meraviglia è pronto a leggere i commenti altrui con la curiosità di conoscere nuovi modi di pensare e di percepire la realtà. È aperto a prendere le parole dell'altro e a coglierne la novità e la diversità, trovando in esse l'occasione per rinnovare il proprio pensiero alla luce di quelle. La meraviglia è quella che mette in testa un "chissà dove vuole andare a parare?", generando interesse per i risvolti imprevisti a cui porterà quel confronto: fa venire voglia di ascoltare, di porre domande e articolare meglio il proprio pensiero.
La meraviglia spinge quindi ad usare proprio quei "perché" che sono l'anima di ogni discussione. Se poi l'altro non ne vorrà sapere tornerà il "fin qui" ad aiutarci. Perché la salute del nostro modo di confrontarci online e offline va misurata anche in base alla capacità di smettere di discutere quando non serve.
Covid: una "piccola storia" nella grande storia dell'umanità
venerdì 31 dicembre 2021
Poi siamo passati all’epoca moderna e alla rivoluzione scientifica: all’eroicità si è sostituita la più ragionevole scienza, la mappatura del virus, le valutazioni sui numeri e sui dati, le prospettive dei virologi, le strategie di vaccinazione con la loro promessa di salvezza. Come ogni epoca moderna che si rispetti, ha avuto anche i suoi sconvolgimenti e le sue guerre: negazionismi, ideologie, proteste di piazza che ci hanno traghettato fino all’età contemporanea della cortina di ferro e della guerra fredda sì-vax/no-vax.
Arriviamo così all’alba di questo 2022 con una variante Omicron che riapre l’imprevisto, le terze e quarte dosi, la roulette russa dei positivi, le file per i tamponi, le quarantene. L’anno che viene ci proietta in piena epoca post-moderna, in cui le ideologie tramontano sotto i colpi delle tristi vicende dei poveri Mauro da Mantova, ma si incrinano anche certi entusiasmi ingenui per la scienza che mostra di non poter risolvere tutto. Iniziamo un nuovo anno nell’incertezza con una visione più limitata, forse anche più umile, sicuramente meno consolatoria.
Ma proprio qui sta il bello della grande storia nella piccola storia: possiamo farne tesoro. Potremmo recuperare dall’epoca antica un po’ di quello spirito eroico dei primi tempi, magari in modo meno epico e pomposo dell’”andrà tutto bene”, ma traducendolo in un più ordinario fare bene ognuno la sua parte. Dell’epoca moderna non dovremmo perdere la “cura della ragione”, magari con meno entusiasmi facili e trionfalismi da talk show, maturando una fiducia più posata e aperta all’incertezza. Di sicuro dovremmo sbarazzarci di polarizzazioni, ideologie e guerre che hanno mostrato quanto non ci portino lontano.
Guardando al bi-anno che si chiude, insomma, potremmo cogliere una lezione che poi è da sempre quella che l’uomo tenta di imparare dalla sua storia: quando accettiamo di essere deboli, e ci accorgiamo di esserlo insieme, allora possiamo essere forti. Buon 2022 di fragilità condivisa. Se sarà eroica, ragionevole e disposta al confronto dipende solo da quello che tu e io decideremo di scrivere nella pagina di piccola grande storia dell’anno che ci aspetta.
Bene-detta contaminazione. Ovvero comunicare nelle differenze
giovedì 4 novembre 2021

Per molto tempo ho iniziato le mie conferenze con un’infografica sull’information overload, il sovraccarico informativo dovuto alla gigantesca quantità di dati che vengono scambiati online ogni minuto tra messaggi di WahtsApp, post di Facebook, ricerche su Google e altro. Iniziavo quelle conferenze sottolineando come le persone sempre più spesso si sentano schiacciate dalla mole di informazioni che ricevono rispetto a quelle che possono davvero recepire e interiorizzare.
Ritenevo che la sindrome FOMO, Fear Of Missing Out, la paura, cioè, di rimanere tagliati fuori dal flusso informativo, fosse una delle dinamiche fondamentali che caratterizzavano il nostro essere sempre connessi e sottoposti a continue notifiche provenienti da più piatta- forme e su diversi dispositivi.
Poi ho cambiato idea.
Mi ha illuminato in questo Antonio Pavolini con la sua correzione del FOMO in FOMI, ovvero in Fear Of Missing In: la questione non è tanto la paura di perdere delle informazioni rilevanti nel flusso in sovraccarico, quanto quella di non essere presenti al suo interno, cioè l’essere spinti in modo irresistibile a dire la propria in quel flusso proprio perché in esso stanno discutendo gli altri con cui si è collegati.
Sovraccarico di relazioni
In altre parole il problema non è solo che abbiamo troppi stimoli rispetto alla nostra capacità di interpretarli e metterli in ordine, ma anche che quegli stimoli ci si presentano più o meno intensi in base alle reazioni di coloro con cui siamo in connessione che sempre li accompagnano. Il sovraccarico infatti non è dato tanto dalla mole di dati, quanto dalla modalità con cui quelle informazioni ci raggiungono e ci spingono a reagire e a interagire con esse.
Non siamo monadi indipendenti e isolate che usano le loro capacità cognitive per mettere ordine nelle troppe informazioni. Siamo esseri umani altamente relazionali che vengono investiti e raggiunti da certe questioni perché qualcuno attorno sta reagendo rispetto ad esse. Ci piacerebbe essere distaccati e intenti a discriminare la falsità delle apparenze in favore della conoscenza attendibile, in realtà siamo animali sociali, coinvolti e dipendenti dagli input di chi ci sta attorno e intenti a districarci in essi perché quegli stimoli sono inseriti in relazioni che per noi hanno un peso.
È uno degli effetti della relazionalità esponenziale a cui la rete ci sottopone. A travolgerci non è un carico puramente quantitativo, ma qualitativo: le informazioni ci balzano all’occhio, attirando la nostra attenzione, soprattutto quando sono capaci di farci reagire.
La minaccia della differenza
Cosa è che ci fa reagire più di tutto e in modo immediato e di pancia? Di solito la differenza: quando ci appare davanti agli occhi qualcosa che rifiutiamo perché va contro i nostri valori fondamentali, tendiamo a sentire irresistibile la tentazione di dire la nostra. È questo uno dei motivi per cui in rete esiste una certa tendenza all’indignazione e al discorso contrapposto: inveire contro qualcosa è il metodo più a buon mercato per far emergere i propri contenuti e farli balzare all’attenzione nel sovraccarico grazie alle reazioni a loro volta indignate degli utenti.
In altre parole il sovraccarico di informazioni è inscindibilmente legato al fatto che esse tendono a raggiungerci “già litigate”, cioè spesso ci appaiono rilevanti proprio perché qualcuno vicino a noi sta avendo una reazione forte e violenta riguardo a esse. Più che di informazioni è soprattutto un sovraccarico di reazioni.
La nostra onlife è quindi soprattutto caratterizzata da questo accorciamento delle distanze che tende a farci percepire costantemente vicine le nostre differenze. La percezione è che ciò che prima potevamo tenere fuori dai confini delle nostre zone sicure sia oggi invece costantemente invadente, ci arrivi nelle timeline e negli spazi connessi senza la nostra autorizzazione e senza che lo abbiamo cercato.
Come fa notare Manuel Castells in Comunicazione e potere, con la rete si assite alla “frammentazione più che alla convergenza”: più che la nascita di una cultura globale, la rete ha portato a osservare la diversità culturale come tendenza principale.
E la questione non è solo interculturale, ma si presenta anche nelle micro-interazioni che avvengono all’interno di una cultura omogenea. Perché la diversità, con la connessione, è diventata un aspetto ordinario della realtà.
È l’esperienza che ciascuno di noi fa continuamente nei gruppi di WhatsApp o nei commenti dei post sui social network: a emergere e a farla da padrone sono spesso le divergenze, i fraintendimenti, i dissapori derivanti da differenze di sensibilità, di linguaggio.
La differenza dell’altro grazie alla tecnologia digitale supera le barriere del “dove” (non c’è bisogno di stare vicini per sentirla addosso) e del “quando” (non c’è un momento specifico, ma potenzialmente siamo sempre raggiungibili da essa). La dimensione digitale ha acuito quei livelli di avvicinamento e accettazione delle differenze che la nostra epoca richiede molto più alti di qualsiasi altra epoca precedente.
È quella che definisco diversità aumentata facendo il parallelo con la realtà aumentata: così come le tecnologie digitali ci permettono, attraverso un visore o un dispositivo collegato in rete, di vedere molte più informazioni della realtà rispetto all’occhio nudo, la diversità aumentata è quell’effetto per cui la connessione ci mette in una condizione di incontro/scontro amplificato con le differenze degli altri, che vengono percepite molto più vicine di quanto non sarebbero nella convivenza puramente fisica.
Questa diversità aumentata in cui siamo immersi può assumere la forma di un continuo difendersi dalla differenza oppure può essere una grande occasione di apertura e di allargamento di orizzonti. Tutto dipende da come l’essere umano iperconnesso si pone di fronte a essa. La nostra vita connessa può essere vissuta cogliendo l’opportunità di entrare in contatto con mondi, sensibilità e aspetti della realtà che altrimenti non raggiungeremmo, oppure si può disperdere nello stress di essere costantemente esposti alla carica emotiva ed esistenziale di interlocutori che stanno difendendo il loro mondo e il loro spazio vitale differente.
È come essere in ogni momento sottoposti a una sorta di prova sociale che consiste nel saper stare in continuo contatto con il dissenso, cioè con il diverso modo di sentire e di vedere le cose degli alti. E a questa prova non ci si può sottrarre. Come abbiamo visto, qualcuno sceglie di cancellarsi dai social o di ritirarsi in una specie di rifugio eremitico lontano dagli scambi online. Lo fanno singoli utenti, ma talvolta prendono decisioni simili anche organizzazioni e aziende.
Tali soluzioni in realtà sono solo palliativi: la diversità aumentata non dipende da una piattaforma o dai social in particolare, ma è il frutto della condizione di iperconnessione in cui siamo immersi e non è reversibile. Anche se si mette off su tutti i dispositivi, il mondo attorno continua a vivere e incidere sulla vita e sulle scelte dell’individuo anche se è disconnesso.
Se un’azienda si cancella dalle piattaforme, gli utenti continueranno lo stesso a scambiarsi commenti e giudizi sui suoi prodotti e servizi, e quei contenuti, fatti di idee, opinioni, obiezioni, incideranno sulle relazioni delle persone e, che piaccia o no, andranno a costruire o a deteriorarne la reputazione.
Lo stesso accade per ciascuno: tutti abbiamo fatto l’esperienza di quanto, in gruppi di WhatsApp con colleghi, amici o genitori di scuola, le conversazioni scomposte e poco proficue incidano su decisioni importanti per la nostra vita e per la vita dei nostri figli. Disconnettersi non le migliora né le rende meno rilevanti per la nostra vita, semplicemente ce le toglie da davanti agli occhi.
Il rifugio nei gruppi di opinioni omogenee
Da sempre, trovarsi d’accordo e riscontrare affinità è umanamente appagante: ci si riconosce, si sperimenta senso di appartenenza, ci si fa forza. Invece stare nelle differenze è faticoso: richiede ascolto, elaborazione, articolazione del pensiero e delle emozioni. Non sorprende quindi che nella condizione di diversità aumentata si acuisca quell’umanissima tendenza alla ricerca del consenso e della omogeneità di opinioni da parte degli altri.
Sui social questo effetto gratificante è alimentato dal sistema dei like che è come un indicatore immediato e semplice del plauso che si riceve rispetto a un contenuto pubblicato. Il like è un alimentatore di conferme: più se ne ricevono, più si ha la sensazione di essere riu- sciti a dire qualcosa di significativo.
Nel suo Per un pugno di like, Simone Cosimi ha fatto notare quanto alle piattaforme non piaccia il dissenso: esprimere consenso è semplice, basta cliccare sul cuoricino o sul pollice in su; mostrare disaccordo, al contrario, è molto più oneroso, richiede l’articolazione di pensiero e di parole. Alla lunga si crea un effetto semi-paradossale: quando si vuole contestare qualcosa si finisce per mettere like ai contenuti di chi quella cosa la contesta (come succede in quei continui richiami all’indignazione di cui abbiamo parlato) così persino un atto di dissenso va a confluire all’interno di una forma di consenso. Per dire che si è in disaccordo lo si fa attraverso la manifestazione di un accordo con qualcuno che si sta opponendo.
Il rifugiarsi tra simili
Si alimenta in questo modo una dinamica fatta di sacche di consenso nutrite da like di persone che la pensano allo stesso modo. Ogni posizione tende a circoscriversi, a raccogliere il consenso tra opinioni omogenee e, anche se si contrappone formalmente a qualcosa, di fatto non provoca mai un vero e proprio confronto con la prospettiva diversa. Si ottiene attenzione attraverso una contestazione e un’affermazione di differenza, ma poi si finisce a ritrovarsi tra simili a confermare attraverso quella differenza la propria somiglianza.
Questo rifugiarsi tra simili che si danno man forte, facendosi eco con le loro opinioni come in una cassa di risonanza (echo chamber), è una risposta alla fatica e alla prova a cui sottopone la diversità aumentata. Una tendenza che porta a un certo coefficiente di disinformazione e di polarizzazione giacché, quando si è in una di queste echo chamber, le informazioni che si ricevono e si condividono tendono ad essere sostanzialmente omogenee e a confermare ciò che già si pensa, spesso in modo infondato o incompleto.
È la radice di molta della violenza verbale a cui assistiamo nelle discussioni online: mancanza di informazioni attendibili e polarizzazione su posizioni inconciliabili sono il mix esplosivo che rende molte interazioni tendenti al litigio e all’espressione di odio.
La denuncia del nemico
Se pensiamo agli scorsi mesi di lockdown dovuti alla pandemia abbiamo assistito a numerosi fenomeni di questo tipo come ad esempio la delazione sistematica dei runner attraverso i social, diventati a un certo punto gli untori e il nemico numero uno della lotta al Covid19.
Quello spirito di denuncia del “nemico”, basata su informazioni non del tutto complete, unita al sentirsi parte di un gruppo di moralizzatori “giusti” intenti a mettere al bando l’outsider trasgressore delle regole, ha prodotto un’ondata di atti di comunicazione aggressivi e talvolta irrazionali.
Ha descritto bene il fenomeno nei suoi effetti ridicoli un post in cui veniva riportata una foto della maratona di New York con una folla di runner intenti ad attraversare un ponte accompagnato dalla scritta: «Incoscienti che corrono sul ponte dello stretto di Messina nonostante i divieti». A coronare questa immagine due commenti, uno con scritto «Idioti!», l’altro con un «Ma sarà una foto vecchia spero».

Lasciarsi trasportare dalle reazioni in tendenza nelle proprie bolle omogenee senza un giusto distacco dalle proprie percezioni e dalle opinioni dei propri affini porta, come in questi casi, a fenomeni di vera e propria cecità.
È quello che ho chiamato l’Effetto Triceratopo: una definizione che viene da un caso di qualche anno fa in cui James Ascomb pubblicò su Facebook la foto di Steven Spielberg ritratto di fronte a un pupazzo di triceratopo morto sul set di Jurassic Park.

Il testo che accompagnava la foto suonava più o meno così: «Scellerata foto di un cacciatore sportivo mentre sorridente è in posa davanti al triceratopo che ha appena massacrato. Condividi anche tu affinché il mondo conosca, e svergogni, questo spregevole uomo».
A questo post seguirono migliaia di reazioni e commenti in cui, accanto a coloro che avevano colto l’ironia, apparvero molti commenti di animalisti e di persone contro la caccia pronte a inveire contro lo spregevole cacciatore. Addirittura in uno scambio, che non si capisce se serio o ironico, un utente dice all’altro: «Ma quello è Spielberg, il regista di Jurassic Park»; e gli viene replicato: «Non importa chi sia, non avrebbe dovuto sparare all’animale!».
Le pressioni cognitive
Questo caso che fa ridere e fa pensare a problemi di analfabetismo funzionale per l’incapacità di riconoscere un triceratopo in foto, in realtà ci dice qualcosa su un meccanismo che sta alla base di molti scontri che avvengono online. L’animalista caduto nell’errore, infatti, subisce almeno tre pressioni cognitive:
1. La pressione del gruppo omogeneo: probabilmente, quel contenuto arriva nelle sue timeline in quella formula relazionale e trascinante che abbiamo visto, accompagnato cioè dalla reazione negativa di qualche contatto affine per idee e visione della vita. Come accade spesso per le piattaforme social gli algoritmi tendono a mostrarci i contenuti quando sono commentati o hanno suscitato una reazione nelle persone con cui siamo più strettamente e assiduamente connessi.
2. La sfida al proprio mondo di valori: per una persona che crede nella difesa e nel rispetto degli animali, il contenuto del triceratopo non è solo un insieme di informazioni da codificare, ma un vero e proprio affronto a tutto ciò che per lui ha valore. È diversità inaccettabile: la foto ritrae una persona che ride davanti a un animale morto, la scena peggiore che un animalista possa immaginare. La quarta parola del post è “recreational hunter” – “cacciatore sportivo” – un termine che rappresenta il nome del nemico.
3. La pressione a difendere il proprio mondo: come abbiamo detto, il contenuto arriva già accompagnato dall’indignazione degli altri animalisti, cioè la “sua gente”, i suoi simili. Di fronte quindi alla minaccia dei propri valori, si sente l’irresistibile necessità di dichiarare la propria posizione contraria rispetto a quel contenuto “alieno” che sta offendendo il proprio mondo, e si ha quasi la sensazione che non esprimersi sia una sorta di vigliaccheria o di venire meno alle proprie convinzioni.
L’intervento scomposto di protesta contro lo spregevole cacciatore a sua volta apparirà sulle timeline di altri contatti con idee simili e il ciclo di pressioni si estenderà nelle connessioni di prossimità, tra affini, in modo virale come l’ondata di indignazione che solleverà.
Nel caso del triceratopo o del ponte sullo stretto fa ridere ed è alquanto paradossale, ma a questo meccanismo siamo sottoposti tutti nei nostri spazi online magari con triceratopi e runner-untori meno lampanti e più sfumanti, ma altrettanto distruttivi.
Ogni volta, infatti, che sentiamo la necessità di intervenire e prendere una posizione, in realtà stiamo subendo quella triplice pres- sione: quel contenuto ci ha raggiungo già impostato dalla reazione dei nostri affini, lo ve diamo come una sfida di differenza rispetto al nostro mondo di convinzioni, siamo portati a posizionarci (contro o a favore) ancora prima di aver capito di cosa si tratti veramente.
La realtà è che nelle nostre continue interazioni nella diversità aumentata siamo impegnati in alcune delle sfide cruciali per la nostra vita, a volte senza esserne pienamente consapevoli. In ogni momento, infatti, ci cimentiamo nella possibilità di capire qualcosa in più o in meno della realtà che ci circonda; con le nostre reazioni ci presentiamo agli altri in modo più o meno adeguato e adatto (cioè ci va di mezzo la nostra reputazione); infine, con il nostro comportamento contribuiamo a migliorare o peggiorare la situazione per chi è in relazione con noi perché riceverà nei suoi spazi a sua volta gli effetti di quelle reazioni.
La differenza dà significato alla relazione
Il valore della comunicazione oggi non si può più misurare solo nella capacità di attirare l’attenzione e di confezionare messaggi chiari e comprensibili. In uno scenario di diversità aumentata la buona comunicazione non può che essere misurata sulla capacità di capire e farsi capire da chi non è d’accordo.
E questo non è un discorso puramente etico, come di aspirazione a un bene superiore rispetto alla realtà così come è, ma il contrario: per comunicare efficacemente nella iperconnessione occorre saper gestire ciò che verrà dal potenziale dissenso che ogni atto può generare agli occhi degli altri connessi.
Il criterio della gestione del dissenso e delle dissonanze è l’occasione per uscire dalle bolle di opinioni omogenee e vederci meglio nella complessità della realtà che stiamo vivendo. La comunicazione in un certo senso diventa una costante comunicazione di crisi, cioè capacità di far crescere le relazioni proprio quando le cose non tornano, quando non ci si capisce, quando non ci si trova a proprio agio nell’interazione con l’altro. È lì che ci può essere occasione di apertura rispetto alla tendenza istintiva a rimanere fermi nelle proprie modalità di comportamento e nelle proprie cerchie tribali abituali.
Il disaccordo come occasione
Dovremmo liberarci di quell’ideale un po’ astratto e ingenuo di dire le cose così bene da farci tutti amici. È un’illusione che, di fatto, non si è mai davvero realizzata. È stato a lungo il sogno del successo e oggi risuona nella ricerca di like e compiacimento da coloro che condividono le stesse idee. Quello che si rischia è rinchiudersi in tribù composte da circoli ristretti di consenso e non guardare più il resto del mondo là fuori. Perché se si accetta di essere esposti alla connessione, per quanto saremo capaci di ottenere un po’ di riscontro tra gli affini, accanto ad essi ci raggiungeranno sempre le interazioni di chi obietta, di chi non capisce, di chi si ribella, di chi non condivide la nostra visione della realtà.
E questa è un’ottima notizia. Perché se acquisiamo la capacità di saper stare in quei dissensi e in quei conflitti avremo la possibilità di conoscere persone e costruire relazioni che vanno molto al di là della tribù in cui siamo naturalmente inseriti.
Dal proprio mondo a un universo di mondi
Non solo: accettare la fatica dello stare nella differenza vuol dire essere disposti a mettere alla prova le proprie idee, e quindi migliorarsi. Chi cerca di articolare il proprio pensiero di fronte a un altro che non lo accetta o non lo capisce in modo automatico, aumenta la sua capacità di espressione, di argomentazione e perfino di affinamento del pensiero, oltre che di gestione delle emozioni. Finisce, alla lunga, a sviluppare pensiero critico e capacità di distacco dalle proprie convinzioni che, spesso, sono i principali ostacoli alla possibilità di fare nuove conoscenze.
La connessione ci sta chiedendo di sviluppare la capacità di stare nelle differenze come modo abituale di comunicare in rete. Forse prima era qualcosa che riguardava solo alcuni dediti a specifiche professioni o in condizioni di vita particolari. Oggi riguarda tutti, perché tutti siamo connessi.
Quelle tirbù omogenee in cui tutti siamo inseriti, se diventano l’unico orizzonte del no- stro vivere connessi possono essere ingabbianti e tenerci immobilizzati dal punto di vista relazionale e cognitivo. Se invece ben intese, come comunità che ci danno identità e comunanza, ma poi ci lasciano aperti verso l’esterno di relazioni basate sulla diversità aumentata, a guadagnarci sarà la nostra capacità di conoscere e di convivere: i molteplici mondi in connessione formano un universo molto più ricco e vitale del piccolo mondo sicuro in cui tendiamo a rifugiarci per pigrizia o paura di ciò che ci appare differente.
Lo "spettacolo" del litigio sui media
venerdì 10 settembre 2021
Da Re Mida al Cercatore d'oro: ovvero discutere meglio online
venerdì 30 luglio 2021
Ogni volta quindi che un interlocutore solleva un’obiezione sentiamo che quel materiale preziosissimo è stato indebitamente svilito. Da lì la reazione: vogliamo ripristinare la dignità del nostro tesoro argomentativo e, per farlo, ci lanciamo a sconfessare completamente il dissenso altrui.
Dato che spesso non abbiamo tutte le ragioni dalla nostra e di solito l’altro non ha totalmente torto, non siamo in grado sempre di contestare del tutto ciò che ci obietta. Ci rifugiamo quindi nella manovra che, da sempre, permette di controbattere in qualunque situazione: l’attacco alla persona. Si passa così dall’oggetto del contendere (gli argomenti sollevati) all’aggredire il contendente. Già Schopenhauer ne “L’arte di ottenere ragione” ne parlava come dello stratagemma adottato più frequentemente perché di fatto sempre applicabile e alla portata di tutti.
È innegabile che quando vediamo due o più persone discutere, assistiamo spesso sostanzialmente a dei Re Mida che si indignano per il loro “oro svalutato” e passano ad accusarsi a vicenda. Risultato: l’argomento da cui si era partiti viene perso per strada, lo scontro porta ciascuno a confinarsi ancora di più nella sua posizione, la discussione sostanzialmente fallisce, facendo perdere tempo ed energie.
Persino i partecipanti che assistono, come dice Platone nel Gorgia, “si pentono di aver creduto che sarebbe valsa la pena venire a sentire gente del genere”. L’effetto: senso di frustrazione, erosione della fiducia nella possibilità di discutere. Nasciamo confutatori, ma moriamo litigiosi e insoddisfatti.
Il problema, quindi, ancora prima che nei modi, nei toni e nelle dinamiche dei confronti digitali, è nei presupposti: in che modo ci si presenta in un dibattito? Se ci si sente Re Mida e si ritiene di proferire solo parole e opinioni d’oro, sarà molto probabile che si finirà a muovere guerra verbale contro tutti coloro che, anche in minima parte, non sapranno riconoscere il valore quelle idee. La continua sensazione di lesa maestà comprometterà il confronto sul nascere.
Una strada allora per risanare le discussioni è cambiare il nostro rapporto con l’oro. Passare dalla figura di Re Mida – che si illude di autoprodurre oro argomentativo – a una immagine diversa, quella del Cercatore d’oro che vede il materiale prezioso come qualcosa da trovare, risultato di un lavoro faticoso e paziente. Cosa fa il cercatore? Con il setaccio filtra la terra e il fango presenti nel letto del fiume e, facendoli sciogliere attraverso lo scorrere dell’acqua, trattiene eventuali piccole pepite che per la loro consistenza non scivolano via.
Il Cercatore d’oro ha le caratteristiche di un buon disputatore. Anzitutto vede l’oro come risultato di una discussione e non come presupposto, quindi è disposto a entrare nel confronto alla ricerca di qualcosa che prima non aveva. È disposto imparare, potremmo dire.
Secondo, ha la consapevolezza che l’oro è ciò che resta: è pronto cioè ad accettare che in uno scambio ci siano parole scomposte, argomentazioni fallaci e mosse scorrette (la terra e il fango all’interno delle quali si celano le pepite d’oro). Non si aspetta un contenzioso perfetto, ma ammette che una discussione è sempre una danza imperfetta tra ballerini incerti, è normale che produca scarti.
Terzo, inonda con acqua la terra e il fango delle provocazioni e le fa sciogliere: è la capacità di lasciar correre, senza soffermarsi a ogni piccola sfumatura aggressiva, per rivolgersi invece ad eventuali parti preziose dell’argomentazione su cui si può discutere. Parti che possono essere anche piccole – come pepite appunto – che però, una volta trovate, ripagano di tutti i chili di terra inutile scartata.
Giudizi sprezzanti online: la migliore risposta è una domanda
giovedì 8 luglio 2021
Ad esempio sono affermazioni come le seguenti:
Il vostro buonismo è la vostra condanna!
Queste idee sovraniste sono la rovina del paese.
La carriera di questo cantante è finita.
Trovo insopportabili i tuoi post!
Il vostro pesce crudo fa schifo!
Io ho studiato, altri mostrano di non averlo fatto.
Eccola la sciocchezza che mancava nel mare di ovvietà già sentite.
Sui social o in dibattiti mediatici, il ricorso a questo tipo di affermazioni provocatorie ottiene un effetto evasivo e distraente. Di solito impedisce alla discussione di essere realmente contraddittoria (cioè di affrontare il merito di una questione fino in fondo) per trasformarla in una mera contrapposizione.
Questo tipo di affermazioni, infatti, ha un duplice effetto: da un parte opera una riduzione rispetto alla complessità di cui si sta discutendo, dall’altra ha in sé una carica aggressiva che sposta l’attenzione dal tema in oggetto all’interlocutore a cui sono rivolte. Dal contenuto si passa a discutere della relazione tra i disputanti (che si deteriora). Il risultato è quello di passare dalla messa alla prova delle idee a alla messa alla prova delle persone. Il litigio, così, è servito.
Prendendo gli esempi che abbiamo fatto possiamo osservare questi due effetti secondo diverse tipologie:
Queste idee sovraniste sono la rovina del paese.
Riduzione: l'affermazione dell’altro viene ricondotta alla tipologia buonista o sovranista, cioè le eventuali ragioni presenti vengono scartate perché attribuite a uno schema (inadeguato) già noto che porta condanna o rovina.
Attacco: l'appartenenza a un gruppo o a uno schieramento come spia di un difetto nel ragionamento.
Messa in dubbio delle capacità
2. Messa in dubbio delle capacità altrui
La carriera di questo cantante è finita.
Riduzione: la frase presume che si possa dare un giudizio immediato e sintetico su una questione ampia come la carriera artistica di un cantante.
Attacco: l’affermazione postata negli account online del cantante in questione ne mette in dubbio le capacità oltre a intaccare i fan che si sentiranno colpiti dalla valutazione negativa.
Trovo insopportabili i tuoi post!
Il vostro pesce crudo fa schifo!
Riduzione: il criterio dell’insopportabilità (non chiarito se sia di natura emotiva, morale, cognitiva o altro) e del disgusto percepito soggettivamente sono elevati a criteri di valutazione oggettivi.
Attacco: il gusto/sentimento/impressione negativi di un utente espressi in pubblico e scritti creano immediatamente una sorta di voragine di reputazione. Si pensi al secondo commento se postato negli account di un ristorante di sushi.
Io ho studiato, altri mostrano di non averlo fatto!
Eccola la sciocchezza che mancava nel mare di ovvietà già sentite!
Riduzione: un ragionamento viene ridotto a “mancanza di studio” oppure a “sciocchezza” con grande facilità, come il “mare di ovvietà” con cui si definisce un indefinito numero di affermazioni simili non meglio specificate.
Attacco: sia il “non studiare” che il “dire sciocchezze nell’ovvietà” qui hanno anche l’elemento moralistico, non vengono presentate solo come mancanze personali (come nei casi C), ma alludono al tradimento di un presunto modo di ragionare e di agire corretto.
Il sinistro-destro dialettico da schivare
Questo doppio colpo riduttivo-aggressivo assomiglia a un “sinistro-destro” di boxe che spinge spesso chi ne è vittima a replicare in modo inefficace. Nella boxe la combinazione di due colpi ravvicinati serve di solito a fare in modo che nel parare il primo l’avversario si scopra ricevendo tutta la potenza del secondo. Anche in questa mossa dialettica l’attacco personale serve per portare a segno la ben più perniciosa riduzione che fa fallire il confronto.
La reazione, infatti, è innescata di solito dalla questione prioritaria che si avverte intaccata: la propria identità. In una discussione chiunque, anche il più distaccato, porta sempre nelle sue argomentazioni ciò che lo rappresenta e che rappresenta il suo mondo. Ciò induce, quando attaccati in pubblico, a sentire un disconoscimento o un rifiuto della propria identità con una fortissima pressione psicologica a replicare ripristinando il proprio buon nome. È questa tensione che spinge, solitamente, a compiere una manovra difensiva di replica controproducente.
Quando la reazione si concentra sul rispondere all’attacco personale, infatti, ci si scopre sul lato ancora più delicato, quello razionale, finendo intrappolati nel vicolo cieco creato dalla riduzione. Concentrati a parare l’attacco ad hominem, ci si dimentica di guardare al “bersaglio grosso” dell’abbassamento del livello razionale delle argomentazioni. In questo modo avviene una specie di accettazione tacita dello schema riduttivo dell’oppositore che prende il sopravvento e sostituisce il centro della questione che si stava affrontando.
Vediamolo attraverso uno degli esempi precedenti:
Eccola la sciocchezza che mancava nel mare di ovvietà già sentite!
Se il destinatario di questa provocazione si concentrasse sull’attacco personale risponderebbe qualcosa del tipo: “Sciocchezza sarà per lei!”, “Come si permette a darmi dello sciocco?”, “Non mi pare affatto né sciocca né ovvia!”, e così via.
Cosa otterrebbe? Anzitutto di aver accettato la cornice semantica dell’aggressore: si sta parlando ormai di “sciocchezza”, di “sciocco” e non più del tema iniziale che aveva fatto scaturire il giudizio. Quindi il contenuto dell’argomentatore è stato rimpiazzato da quello del provocatore. Ma soprattutto si è passati dal discutere delle idee alla messa in discussione delle persone: si è ormai nella contrapposizione tra due interlocutori.
Una mossa di difesa che è doppiamente inefficace: perde il tema e perde anche la qualità della discussione. Un vicolo cieco di un dibattito in cui non ci sono più ragioni o prove, ma affermazioni di posizione da parte di ciascun contendente. Il “destro” dell’attacco personale ha permesso al “sinistro” di andare a segno: la questione complessa su cui forse valeva la pena discutere è stata rimpiazzata da una forma di alterco verbale altamente spettacolare, ma poverissimo dal punto di vista del confronto.
Come rispondere? Con una domanda
Quando ci si trova di fronte a un giudizio apodittico polemico, invece di lanciarsi subito in una replica difensiva (che darebbe rilevanza all’attacco e alla riduzione prodotta) sarebbe molto più efficace riportare nel campo del contendente l’onere della prova. Chiedere ragioni, prove, dati, fatti a supporto del giudizio espresso è la migliore mossa non solo per schivare il destro-sinistro ma, come vedremo fra poco, per servirsi della forza dell’affondo per tornare a discutere sul tema. In un sol colpo si ottiene di non dare peso all’attacco personale, che cade ignorato, e di rimettere il confronto sul livello della razionalità e delle idee.
Riprendiamo da un esempio precedente, il più concreto, per mostrare che anche in casi molto specifici si possono osservare risultati interessanti:
Il vostro pesce crudo fa schifo!
Il ristorante, invece di difendersi dall’attacco infondato, potrebbe rispondere: “Ci può spiegare cosa ha trovato che non andava nel nostro sushi?”. Una replica di questo tipo otterrebbe diversi effetti:
- Mostrerebbe che il ristorante è votato al tema, cioè disposto a discutere della qualità del pesce, visto che è il cuore delle sue attività.
- Non cederebbe alla contrapposizione utente vs ristorante, ma manterrebbe il confronto sul piano della qualità del pesce.
- Lascerebbe l’onere della prova nel campo dell’oppositore: per tutti quelli che assistono sarà evidente che non è stato ancora dimostrato che il pesce sia di scarsa qualità.
Non significa essere remissivi ed evitare il conflitto con l’altro, ma l’esatto contrario: mantenere lo scambio nel conflitto e nella contraddizione per andare fino in fondo. Dal punto di vista del ristorante, la richiesta di fornire le “ragioni dello schifo” costituisce una replica critica e altamente contraddittoria che costringe chi ha sollevato l’obiezione a farsene carico, pena il risultare infondato agli occhi del pubblico che assiste. Una mossa tutt’altro che accondiscendente o pacifista.
La risposta efficace al giudizio apodittico, insomma, non è una vera e propria difesa, ma assomiglia di più a un contrattacco che, con la sua richiesta di ragioni o prove, ribalta la prospettiva dialettica e ha l’effetto di smascherare gli attacchi indebiti senza dare loro eccessivo spazio nello scambio, anzi sottraendogli terreno.
Accettare quando l’altro ha ragione
venerdì 23 aprile 2021
In una discussione di solito ci si fa prendere dalla smania di dire la propria, passando sopra a tutto ciò che dice l’altro. In modo tattico, anche quando l’altro ha affermato qualcosa di accettabile, si va oltre affrettandosi ad aggiungere le proprie convinzioni.
Fermarsi, invece, per dichiarare pubblicamente che le affermazioni dell’interlocutore sono condivisibili, può essere una mossa vantaggiosa. Compiendola, infatti, si possono raggiungere due risultati importanti.
Il primo dal punto di vista del contenuto: riconoscere laddove l’altro ha ragione rinforza la qualità dello scambio e permette di aggiungere, chiosare e ampliare il discorso con le proprie tesi. Il secondo dal punto di vista della relazione: è un segnale costruttivo non solo per l’interlocutore che, seppure ingaggiato in una dinamica di dissenso si sente ascoltato, ma soprattutto per l’uditorio che, vedendo un contendente riconoscere le ragioni dell’altro, ne può notare la dedizione al tema e la disponibilità a discutere.
Insomma accettare le ragioni altrui è la prova che si sta discutendo con lo scopo di contribuire davvero, per capire qualcosa in più, e non solo per posizionare se stessi e difendere la propria identità.
Se ha ragione in parte, adotta quello che dice adattandolo a ciò che vuoi dirgli
Accettare in parte
La maggior parte delle volte accadrà però che l’altro ha ragione solo in parte. In questi casi, come spiega Adelino Cattani, l’accettazione delle ragioni altrui può procedere adottando ciò che dice per poi adattarlo a ciò che si vuole sostenere: ad esempio accettando le premesse, oppure convergendo sui criteri, ma divergendo poi sulle conclusioni, sulle applicazioni o mostrando che i fatti esposti non sono del tutto generalizzabili.
Questa modalità rende di solito il dissenso ancora più efficace di quanto non lo faccia un attacco diretto alle affermazioni altrui, perché parte dal riconoscere il valore di ciò che l’altro ha affermato per poi procedere a far notare che in esso manca qualcosa, o che si può fare qualche passo in direzioni non contemplate dalle sue parole.
L’adottare adattando poi ha una funzione fondamentale: è un ottimo modo per riportare al centro della discussione il tema invece di perdersi nella polemica sui modi e sulle espressioni aggressive.
Facciamo un esempio:
Affermazione: Internet ci ha reso tutti più stupidi!
Risposta A: Non è vero! Non è la connessione, siamo noi che la usiamo male!
Risposta B: Certo si nota un impoverimento intellettuale, ma credo che c’entri soprattutto con l’uso che ne facciamo.
Nella replica A si è scelta la via della nettezza troncante: si usano due dissociazioni sintetiche (“non è vero”, “non è così”), si usa l’indicativo, si lascia all’altro la sensazione che si sta su due posizioni opposte e inconciliabili. È molto difficile che si prosegua in una discussione proficua.
La replica B, invece, nel partire dal riconoscere gli effetti della connessione, si dedica poi a dissentire sulle cause. In questo ottiene un risultato fondamentale: tutto il peso del dissenso non è lasciato ai “non” e ai “non è così”, ma alla seconda parte in cui si ventila che la ragione dell’impoverimento derivi da una questione di uso virtuoso o meno, cioè una questione aperta e discutibile.
È quindi un doppio invito: dal punto di vista della relazione a continuare a discuterne, dal punto di vista del contenuto introduce il tema dell’uso della connessione portando a segno l’obiettivo di sostenere le proprie ragioni.
Una mossa apparentemente “morbida” che in realtà si rivela molto più forte del rifiuto troncante. Ora sta all’altro cogliere la sfida di discutere sul problema dell’uso delle tecnologie di connessione. Se non la raccoglierà, rimanendo sulle sue, chi ascolta si accorgerà della scarsa motivazione a proseguire nel ragionamento. Ancora una volta un modo efficace per svelare dove c’è discussione o solo scontro. Se fosse quest’ultimo caso, allora è meglio fermarsi e lasciar cadere.
Appunti per un'etica dell'engagement
venerdì 5 marzo 2021
L'engagement è la forza che muove la comunicazione digitale, ma di per sé non è un destino. O meglio: spingere il pubblico a reagire per aumentare la visibilità dei contenuti non è l’unico modo di fare engagement. In parte la questione riguarda gli algoritmi e sistema di funzionamento delle piattaforme, ma allo stesso tempo riguarda le scelte di chi comunica: esistono modi di sviluppare engagement alternativi a un modello puramente opportunistico, che sfrutta la situazione, anche se quest’ultimo risulta favorito dal punto di vista commerciale.
In rete, infatti, esistono molti interlocutori che attraverso il loro lavoro riescono a costruire engagement e relazioni significative con il pubblico basate proprio sulla credibilità, sulla affidabilità e sull’equilibrio nell’esporre e offrire i loro contenuti. L’engagement infatti non è un male di per sé, in fondo è una versione riveduta, potenziata e corretta del buon sano vecchio riuscire a coinvolgere chi legge, vede, ascolta. La qualità che questo “farsi ascoltare” assume dipende da quali valori lo animano.
A mo’ di semplificazione potremmo pensare a due modelli opposti di engagement, uno basato sul puro presidio dell’attenzione privo di grandi scrupoli (concetto che Antonio Pavolini spiega bene nel suo #Unframing), il secondo improntato a raggiungere, attraverso il coinvolgimento, una relazione significativa con il pubblico. Potremmo cercare di osservare questi due opposti modelli da un punto di vista valoriale come nello schema che segue.
Arrivare per primi sulla notizia è da sempre un valore giornalistico. E non c’è nulla di male in esso. Il problema è quando “arrivare primi” sacrifica la qualità di ciò che si propone. Alla lunga, la scarsa attendibilità informativa di certi contenuti va a deteriorare la relazione di fiducia con il lettore. E c’è anche un rischio ulteriore, come spiega Giovanni Ziccardi: il “cane da guardia della democrazia” finisce a fare “il cane da riporto” lasciandosi dettare l’agenda da politici e interlocutori pubblici che con i loro messaggi sui social adottano precise strategie di presidio dell’attenzione per essere ripresi (Tecnologie per il potere).
Allo stesso modo il “far abboccare”, il cosiddetto clickbaiting, cioè il confezionare titoli e forzare la narrazione in modo che spinga l’utente a cliccare sul contenuto, può forse regalare un certo numero di visualizzazioni, ma alla lunga quei click andranno solo a nutrire la schiera degli sfiduciati nei confronti dei media. La realtà è che online a pagare a lungo termine è il saper costruire community d’interesse fatte di utenti che si ritrovano a fruire certi contenuti in uno spazio online proprio perché mossi dal riconoscimento di un valore aggiunto.
Molto si gioca sulla differenza tra scioccare e meravigliare. La prima azione catalizza e presidia l’attenzione usando la leva del rifiuto: ti mostro ciò che non avresti voluto vedere, perché inaccettabile, e quindi ti spingo a vederlo per curiosità. Punta sulla pancia e sulle emozioni, ma lì si ferma. La seconda anche essa tocca cuore e viscere ma, passando da esse, innesca il desiderio di conoscere. Secondo Aristotele la meraviglia è lo stupore intellettuale che spinge a volerne sapere di più, a emanciparsi dall’ignoranza.
Scioccando si cerca di “far reagire”, di solito con indignazione, proteste ed espressioni di risentimento. Ma al massimo si arriva a quella che nel marketing è definita conversion: da un contenuto di comunicazione si ottiene una certa azione, in questo caso un like, un commento, un click sul link dell’articolo. Si dirà che è un buon risultato, ma a ben vedere lo stesso marketing invita a fare più: arrivare alla retention, cioè alla capacità di “far tornare”, di “fidelizzare” l’utente rispetto al contenuto prodotto. È qui la differenza tra l’ottenere una reazione estemporanea e il puntare alla meraviglia che spinge alla attivazione e alla partecipazione, al cercare ancora informazioni su quel tema, per approfondire.
Realismo vs Idealismo
Come in tutti gli schemi i due poli di questa opposta visione dell’engagement tendono ad essere un po’ idealistici e astratti, nel bene e nel male. Non c’è qualcuno che incarna del tutto i valori (o meglio disvalori) del presidio dell’attenzione, così come nessuno può riuscire a fare un lavoro talmente impeccabile dal produrre solo contenuti che alimentano relazioni significative. Direi piuttosto che assistiamo a una continua oscillazione tra le due impostazioni.
Il punto però è che l’ottica della costruzione di relazioni significative non è una versione “bonificata” del presidio dell’attenzione. Al contrario ne è una versione potenziata. Coltivare l’engagement nei termini della relazione significativa fa ottenere tutti i benefici del presidio (stare sul pezzo, agganciare l’attenzione, stupire e coinvolgere) con in aggiunta la possibilità, attraverso di essi, di costruire un rapporto con gli utenti basato sulla qualità e sulla fiducia.
Di conseguenza quella del presidio dell’attenzione è una versione pallida e di comodo del buon comunicare online, che si accontenta di una manciata di click e reaction veloce ed effimera, erodendo la fiducia degli utenti. Un vero e proprio segare il ramo dell’albero dove si è seduti.
Tutto questo si traduce in una questione di responsabilità: quanto nelle proprie pubblicazioni online si potrà realisticamente tendere verso il polo significativo senza cedere alla tentazione del presidio dell’attenzione fine a sé stesso? I modelli di business e le piattaforme favoriranno sempre l’engagement a tutti i costi. O meglio: non sarà mai un criterio di convenienza economica a spingere verso un engagement all’altezza del bene della comunicazione. Ci vorrà qualcosa di più. Ognuno scelga liberamente cosa perseguire con i suoi like e commenti.