Appunti per un'etica dell'engagement



di Bruno Masrtoianni, AgendaDigitale.eu, 25.2.2021

L'engagement è la forza che muove la comunicazione digitale, ma di per sé non è un destino. O meglio: spingere il pubblico a reagire per aumentare la visibilità dei contenuti non è l’unico modo di fare engagement. In parte la questione riguarda gli algoritmi e sistema di funzionamento delle piattaforme, ma allo stesso tempo riguarda le scelte di chi comunica: esistono modi di sviluppare engagement alternativi a un modello puramente opportunistico, che sfrutta la situazione, anche se quest’ultimo risulta favorito dal punto di vista commerciale.

In rete, infatti, esistono molti interlocutori che attraverso il loro lavoro riescono a costruire engagement e relazioni significative con il pubblico basate proprio sulla credibilità, sulla affidabilità e sull’equilibrio nell’esporre e offrire i loro contenuti. L’engagement infatti non è un male di per sé, in fondo è una versione riveduta, potenziata e corretta del buon sano vecchio riuscire a coinvolgere chi legge, vede, ascolta. La qualità che questo “farsi ascoltare” assume dipende da quali valori lo animano.

A mo’ di semplificazione potremmo pensare a due modelli opposti di engagement, uno basato sul puro presidio dell’attenzione privo di grandi scrupoli (concetto che Antonio Pavolini spiega bene nel suo #Unframing), il secondo improntato a raggiungere, attraverso il coinvolgimento, una relazione significativa con il pubblico. Potremmo cercare di osservare questi due opposti modelli da un punto di vista valoriale come nello schema che segue.


Arrivare per primi sulla notizia è da sempre un valore giornalistico. E non c’è nulla di male in esso. Il problema è quando “arrivare primi” sacrifica la qualità di ciò che si propone. Alla lunga, la scarsa attendibilità informativa di certi contenuti va a deteriorare la relazione di fiducia con il lettore. E c’è anche un rischio ulteriore, come spiega Giovanni Ziccardi: il “cane da guardia della democrazia” finisce a fare “il cane da riporto” lasciandosi dettare l’agenda da politici e interlocutori pubblici che con i loro messaggi sui social adottano precise strategie di presidio dell’attenzione per essere ripresi (Tecnologie per il potere).

Allo stesso modo il “far abboccare”, il cosiddetto clickbaiting, cioè il confezionare titoli e forzare la narrazione in modo che spinga l’utente a cliccare sul contenuto, può forse regalare un certo numero di visualizzazioni, ma alla lunga quei click andranno solo a nutrire la schiera degli sfiduciati nei confronti dei media. La realtà è che online a pagare a lungo termine è il saper costruire community d’interesse fatte di utenti che si ritrovano a fruire certi contenuti in uno spazio online proprio perché mossi dal riconoscimento di un valore aggiunto.

Molto si gioca sulla differenza tra scioccare e meravigliare. La prima azione catalizza e presidia l’attenzione usando la leva del rifiuto: ti mostro ciò che non avresti voluto vedere, perché inaccettabile, e quindi ti spingo a vederlo per curiosità. Punta sulla pancia e sulle emozioni, ma lì si ferma. La seconda anche essa tocca cuore e viscere ma, passando da esse, innesca il desiderio di conoscere. Secondo Aristotele la meraviglia è lo stupore intellettuale che spinge a volerne sapere di più, a emanciparsi dall’ignoranza.

Scioccando si cerca di “far reagire”, di solito con indignazione, proteste ed espressioni di risentimento. Ma al massimo si arriva a quella che nel marketing è definita conversion: da un contenuto di comunicazione si ottiene una certa azione, in questo caso un like, un commento, un click sul link dell’articolo. Si dirà che è un buon risultato, ma a ben vedere lo stesso marketing invita a fare più: arrivare alla retention, cioè alla capacità di “far tornare”, di “fidelizzare” l’utente rispetto al contenuto prodotto. È qui la differenza tra l’ottenere una reazione estemporanea e il puntare alla meraviglia che spinge alla attivazione e alla partecipazione, al cercare ancora informazioni su quel tema, per approfondire.

Realismo vs Idealismo

Come in tutti gli schemi i due poli di questa opposta visione dell’engagement tendono ad essere un po’ idealistici e astratti, nel bene e nel male. Non c’è qualcuno che incarna del tutto i valori (o meglio disvalori) del presidio dell’attenzione, così come nessuno può riuscire a fare un lavoro talmente impeccabile dal produrre solo contenuti che alimentano relazioni significative. Direi piuttosto che assistiamo a una continua oscillazione tra le due impostazioni.

Il punto però è che l’ottica della costruzione di relazioni significative non è una versione “bonificata” del presidio dell’attenzione. Al contrario ne è una versione potenziata. Coltivare l’engagement nei termini della relazione significativa fa ottenere tutti i benefici del presidio (stare sul pezzo, agganciare l’attenzione, stupire e coinvolgere) con in aggiunta la possibilità, attraverso di essi, di costruire un rapporto con gli utenti basato sulla qualità e sulla fiducia.

Di conseguenza quella del presidio dell’attenzione è una versione pallida e di comodo del buon comunicare online, che si accontenta di una manciata di click e reaction veloce ed effimera, erodendo la fiducia degli utenti. Un vero e proprio segare il ramo dell’albero dove si è seduti.

Una questione di libertà

Tutto questo si traduce in una questione di responsabilità: quanto nelle proprie pubblicazioni online si potrà realisticamente tendere verso il polo significativo senza cedere alla tentazione del presidio dell’attenzione fine a sé stesso? I modelli di business e le piattaforme favoriranno sempre l’engagement a tutti i costi. O meglio: non sarà mai un criterio di convenienza economica a spingere verso un engagement all’altezza del bene della comunicazione. Ci vorrà qualcosa di più. Ognuno scelga liberamente cosa perseguire con i suoi like e commenti.