Prendiamo come esempio la cosiddetta bro culture, associata a quella che chiamiamo “mascolinità tossica”. Perché è tossica? Perché si esprime attraverso un linguaggio fatto di dominanza e discredito, di vittimismo e di riduzione della complessità . Ne ho parlato recentemente nel podcast Autonoma di Maria Cafagna (qui sotto nell'articolo) e qualche tempo fa ne ho discusso in un panel a Parole a scuola.
La dominanza e il discredito
Una cultura tossica promette a chi vi entra a far parte una identità integrata e integrante. Sfrutta quella sensazione di incompletezza che onguno di noi sperimenta quando si chiede "chi sono?". La promessa è: “qui c'è un posto per te, non ti mancherà più nessun pezzo". L'identificazione diventa tossica perché è delineata attraverso dinamiche di dominanza e di discredito. La bro culture si afferma come presunta superiorità rispetto a ciò che è diverso e inferiore: nello specifico la femminilità come sede ciò che è debole e non conforme a canoni del gruppo.
La riduzione della complessitÃ
Spesso tutto ciò viene veicolato con modalità pseudo-ironiche, che sono più sarcasmo che ironia. Anche qui secondo modalità dominanti o di discredito. Ad esempio la battuta offensiva seguita da un “Dai, stavo scherzando!”, che colloca chi la dice in una posizione di consapevolezza superiore auto-attribuita. Oppure scaricando il problema screditando la sensibilità dell’altro: “Dai non ti offendere", "Non essere così sensibile”.
Dunque, qual è la promessa di queste culture identitarie tossiche? Ti dicono: “Ecco il tuo posto nel mondo, un posto migliore di altri, diversi e inferiori”.
- L'attacco e la categorizzazione: "siete dei maschi tossici". Modalità che non fanno che alimentare, per contrapposizione, la promessa di integrazione: "da noi puoi essere come sei, senza tante storie".
Occorre allora utilizzare strumenti diversi che entrino in concorrenza con le promesse non mantenute dal gruppo:
- Esempio: che non è porsi come modello (sarebbe a sua volta un atto di dominanza). L’esempio si misura in azioni: se per primo l'educatore abbandona le modalità linguistiche di dominanza, di vittimismo, di riduzione, costruisce uno spazio di comunicazione (quindi di relazione) alternativo alla tossicità , entrando in concorrenza con le sue promesse.
La riduzione della complessitÃ
In una cultura tossica la realtà viene ridotta in schemi semplicistici: “Il maschile è così, il femminile è cosà ”. Il mondo diventa un elenco ridotto di categorie lineari e poco impegnative. Si ottiene una mappa chiara ed elementare in cui tutto è collocato in un posto preciso ed evidente. L'illusione è quella di potersi muovere nel mondo con disinvoltura e poco sforzo. Questa riduzione piace al cervello, che per natura cerca scorciatoie.
Il vittimismo
A tutto questo si aggiunge un altro ingrediente: la retorica del vittimismo. Chi appartiene a una cultura tossica si mette sempre nei panni di un Davide contro Golia. Le retoriche del "non si può dire nulla", "ci imepdiscono di parlare", "ci attaccano continuamente" servono a sentirsi sempre identificati in una posizione ingiustamente osteggiata da un potere che la vorrebbe mettere a tacere. L'essere umano da millenni si schiera dalla parte di Davide, il debole giusto, nella sua lotta contro il forte invadente. È proprio questa leva che spinge molti Golia a vestirsi da Davide, offuscando le vere vittime in gioco.
Il sarcasmo
Spesso tutto ciò viene veicolato con modalità pseudo-ironiche, che sono più sarcasmo che ironia. Anche qui secondo modalità dominanti o di discredito. Ad esempio la battuta offensiva seguita da un “Dai, stavo scherzando!”, che colloca chi la dice in una posizione di consapevolezza superiore auto-attribuita. Oppure scaricando il problema screditando la sensibilità dell’altro: “Dai non ti offendere", "Non essere così sensibile”.
La grande promessa (illusoria)
Dunque, qual è la promessa di queste culture identitarie tossiche? Ti dicono: “Ecco il tuo posto nel mondo, un posto migliore di altri, diversi e inferiori”.
È qui che la retorica di una cultura diventa tossica:
- promette un'identità mentre in realtà offre una dissociazione (dominanza/discredito);
- simula una mappa del mondo, che è di fatto uno schemino da cui tener fuori ciò che non torna (riduzione);
- indossa una veste etica che in realtà è un travestimento (vittimismo).
Risposte inefficaci
Quando nella relazione educativa proviamo a contrastare queste culture spesso peggioriamo le cose perché usiamo modalità retorico-dialettiche che nutrono la tossicità invece di metterla in crisi.
Ad esempio:
- L'atteggiamento normativo: "si fa, non si fa", "si dice, non si dice", "è sbagliato", "è inaccetabile". Si offrono costanti conferme all'identificazione per dissociazione: "ci giudicano negativamente, quindi ci sentiamo più simili, più vicini, più uniti".
- L'attacco e la categorizzazione: "siete dei maschi tossici". Modalità che non fanno che alimentare, per contrapposizione, la promessa di integrazione: "da noi puoi essere come sei, senza tante storie".
- Il distacco e la censura: "non voglio avere nulla a che fare con voi", "non voglio nemmeno sentirvi parlare". Permettono alla cultura tossica di collocarsi costantemente nella posizione di Davide perseguitato, emarginato, imbavagliato dal Golia che li censura.
Il punto è che ogni contrapposizione non fa che rafforzare l’identificazione interna del gruppo. Più lo attacchi, più si crea attaccamento tra membri. Più ti dissoci, più l'associazione interna si alimenta. Più lo condanni e più il condannato assume le fattezze di uno pseudo-Davide agli occhi dei suoi omogenei.
Oltre la contrapposizione
Occorre allora utilizzare strumenti diversi che entrino in concorrenza con le promesse non mantenute dal gruppo:
- Presenza e vicinanza: se la promessa della cultura tossica è il sentirsi vicini, simili, bisonga entrare in concorrenza con questa offerta. Prima domanda: so davvero dove si muove chi rischia di cadere in una cultura tossica? Conosco i suoi ambienti, fisici e digitali? Il suo immaginario? Sono presente in quei luoghi? O li considero territori che non voglio nemmeno esplorare? Senza presenza, la relazione educativa non si avvia nemmeno.
- Dialogo: che non è dire “parliamone”, sottintendendo "così ti spiego dove sbagli", ma è ascoltare. La logica tossica va considerata con coraggio, non per giustificarla, ma per comprenderla. Giudicare è più facile, indignarsi tiene lontani dal rischio. Lasciare spazio per far sì che le parole pericolose arrivino alle nostre orecchie è l'unico modo per poterle poi trattare. È la via per disinnescare il muro della dominanza e del discredito.
- Esempio: che non è porsi come modello (sarebbe a sua volta un atto di dominanza). L’esempio si misura in azioni: se per primo l'educatore abbandona le modalità linguistiche di dominanza, di vittimismo, di riduzione, costruisce uno spazio di comunicazione (quindi di relazione) alternativo alla tossicità , entrando in concorrenza con le sue promesse.
Adottare adattando
La via alternativa è quella che Adelino Cattani chiama “adottare adattando”. Cioè: adotto il tuo punto di vista, prendo sul serio la tua ricerca di intregrazione dell'identità (più di quanto la prendano sul serio i tuoi bro). Poi però inizio l'adattamento: ci lavoro sopra, propongo modifiche ed evoluzioni, ci entro in contraddizione. Ma lo faccio da vicino (lì dove sei, nel tuo immaginario).
Il primo passo è la rinuncia alle categorizzazioni. Smetto di ridurti a "un maschio tossico", "uno dei bro”. Ti chiamo "per nome e per cognome" disinnescano il potere dissociante della dominanza e del discredito. Si apre così qualche spiraglio verso quella complessità che ci mette tutti in difficoltà , e ci espone, perché ci domanda:
- So proporre prossimità /vicinanza? La mia porposta culturale alternativa ha spazio di riconoscimento per le inquietudini di chi si è infilato in una cultura tossica? Perché altrimenti ad essere dominante/screditante sono io.
- So essere semplice? La mia cultura sa offrire chiavi di lettura che, pur offrendo una mappa, mantengano il riferimento alla complessità del mondo? Altrimenti il primo a ridurre sono io. O peggio: uso la complessità come arma contro chi sta cercando una strada semplice da percorrere.
- So essere dalla parte dei vari Davide? Nella mia prspettiva c'è spazio di attenzione per tutti gli ultimi e i deboli? O ne considero alcuni e non altri alla bisogna, a seconda del Golia che voglio cucire addosso al mio interlocutore?
Una scoperta importante
Quando entriamo davvero in una “disputa felice” con una cultura tossica, cioè stiamo sui contenuti curando al contempo la relazione, scopriamo una cosa essenziale: la nostra identità è fragile quanto quella di chi si riconosce in una appartenenza tossica.
Quando entriamo davvero in una “disputa felice” con una cultura tossica, cioè stiamo sui contenuti curando al contempo la relazione, scopriamo una cosa essenziale: la nostra identità è fragile quanto quella di chi si riconosce in una appartenenza tossica.
Tutti noi siamo in costruzione, nessuno escluso. La differenza è solo che l'intossicato è cascato in una promessa che non sarà mantenuta. La risposta non è costruire un’identità opposta più integra, ma uno spazio di dialogo che riveli costantemente l'inconsistenza di quella promessa.
Il sintomo di una cultura sana, infatti, non è dare un posto preconfezionato nel mondo, ma offrire le risorse per non smettere mai di cercarlo.
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