Il wrestling delle polarizzazioni e l'educazione alla disputa


Le polarizzazioni? Un spettacolo di wrestling. Non lotta, ma lotta finta. Magari ci fosse un vero scontro tra idee. Le posizioni in contrasto non si toccano nemmeno. Ad esser toccate, invece, sono le persone che rimangono incollate agli pseudo-dibattiti con grande guadagno di engagement per chi polarizza. 

A perdere terreno è la contraddizione - che dovrebbe essere il cuore dell’argomentazione, cioè esporre ciò che abbiamo contro per metterlo alla prova - in favore della contrapposizione: una postura rigida, irriconciliabile, che non mira a capire, o scalfire, ma solo ad affermare, schierare, far reagire.

I tre effetti tossici del litigio pubblico

Si parte discutendo di un certo tema, si lancia qualche accusa indgnata, si inizia ad andare sul personale, partono provocazioni e l’argomento si perde per strada. Quando l’argomento cade, la discussione si sposta sulle persone, sugli schieramenti, sulle questioni di principio, diventa meta-discussione recriminatoria: si inizia a discutere di come si discute (male). 

Nel litigio emergono i lati peggiori del carattere. È un po’ come guidare nel traffico di Roma: sotto pressione escono le emozioni più deteriori. Affiorano sentimenti che, in condizioni normali, sarebbero visti come dannosi e considerati da gestire. Nel litigio la parte emotiva prende il sopravvento e diventa il criterio principale attrevrso cui si partecipa alle controversie. Con tutti i danni che questo surriscaldamento provoca.

Il litigio cattura l'attenzione perché produce un piacere deplorevole. Ci sentiamo migliori degli altri oppure proviamo godimento nel vedere il “nostro” paladino schiacciare l’avversario. È un piacere che nasce dalla dominanza. Ed è qui che scivoliamo nel wrestling: uno spettacolo di lotte finte di cui tutti conoscono la finzione, ma che ci incolla allo schermo. Oggi rischiamo che il dibattito pubblico sia esattamente questo: un gigantesco ring di idee che non lottano davvero. 

Come si esce da questa deriva? 

Proprio gli effetti negativi del litigio ci indicano la cura. Educare alla discussione significa far crescere tre virtù, tre abitudini pratiche - non solo competenze cognitive - che rendono possibile un confronto fecondo.  Ne abbiamo parlato in un panel a Parole a scuola (qui trovate il video).

1. La dedizione all’argomento: è il rifiuto della fuga nella meta-discussione. È la scelta di rimanere sul punto, anche quando l’altro tenta di sviare. Anche quando “viene voglia” di colpirlo sul piano personale. Non abbiamo bisongo di discussioni perfette ma di dialoghi imperfetti che continuano a riparare se stessi. La dedizione è una virtù, una pratica continua, simile al lavoro artigianale: si sbaglia, si corregge, si insiste. 

2. Gestione (non controllo) delle emozioni. Le emozioni non si disattivano: si riconoscono. Servono luoghi adatti di formazione - vere e proprie “palestre” - in cui giovani e adulti possano fare esperienza delle emozioni che sorgono nel confronto. Solo riconoscendo la rabbia, la frustrazione, l’ansia da prestazione, possiamo imparare a conviverci. Quando si riconoscono e si danno nomi precisi alle emozioni, imaturano le risorse per gestirle. 

3. Riscoprire la dimensione spettacolare della disputa Se il litigio attira, la disputa deve attrarre di più. Non per distruggere l’altro, ma per generare quella soddisfazione di aver fatto “qualche passo in più verso la verità insieme”. Come ricorda Adelino Cattani: non si tratta solo di saper convincere, ma di saper convivere. Un confronto ben condotto produce un piacere diverso, più profondo: quello di aver ampliato la propria visione, migliorato le proprie idee, ridimensionato i propri pregiudizi. 

Al contrario, l’esito naturale del litigio è la triplice sfiducia che oggi dilaga: 

- è inutile discutere;

 - specialmente su certi argomenti;

- in marticolare con certe persone.

Queste tre affermazioni sfiduciate sono l'ammissione della fine della socialità. Senza la possibilità di articolare differenze, correggersi a vicenda, migliorarsi nel confronto, la convivenza si sgretola. 

Dalla rissa al confronto 

Discutere non è facoltativo, è essenziale per la società. La discussione cura la frustrazione generata dai litigi continui: restituisce fiducia nella possibilità di affrontare temi difficili, fa scoprire che la complessità è affrontabile, fa temere meno la differenza di opinioni fra persone. 

Non è un lusso. È un bene comune. Creare spazi per il confronto non significa inventare un mondo perfetto, ma abitare meglio quello imperfetto che già abbiamo. E quando si assaggia la felicità della disputa, sotto forma di un piacere non deplorevole ma generativo, diventa difficile tornare al wrestling delle opinioni.