Quando smettere di discutere: il limite di ogni confronto


di Bruno Mastroianni, ExAgere, nov-dic 2019.

Quello che dobbiamo esplorare, con l’intento di giungere a criteri adeguati a capire quando sia opportuno porre fine alle discussioni, è una condizione di confronto che ha almeno tre caratteristiche di base:

1. Non siamo di fronte a un semplice scambio a due, ma dobbiamo tenervi all’interno tutti gli interlocutori coinvolti, compresa la moltitudine silenziosa di chi assiste senza intervenire[6].

2. Non è un confronto basato su regole prestabilite accettate tra tutti gli interlocutori (non è una partita a scacchi).

3. Non finisce con un vincitore e un vinto, ma i suoi esiti sui contendenti e sugli osservatori sono molto più complessi e articolati.

Queste tre caratteristiche impongono allora di muoversi in una prospettiva che permetta in modo sufficientemente pratico di affrontare la complessità insita in qualsiasi discussione online e offline.

L’ipotesi di poter creare un modello predittivo che controlli tutte le variabili in gioco è alquanto irrealizzabile: non si potranno mai collezionare davvero tutti i dati necessari, perché gran parte degli interlocutori non darà per forza un segnale esterno apprezzabile sulla reale incidenza delle argomentazioni sul suo pensiero, e molti altri potrebbero dare segnali fuorvianti (ad esempio sostenere in pubblico di non essere stati convinti, ma esserlo interiormente). In ogni caso, se mai si riuscisse ad avere anche tutta la disponibilità di dati salienti a proposito di chi è toccato da una discussione, tale operazione non risulterebbe alla portata di chi in una discussione viene coinvolto e deve prendere decisioni sul da farsi.

Sostanzialmente, quindi, una possibile teoria sulla fine delle discussioni avrà a che fare con il riconoscimento dei limiti propri e degli altri coinvolti. L’impossibilità del controllo su tutti e su tutto ciò che è implicato in un’interazione non può che portare il discutente a concentrarsi su ciò che è alla sua portata in quell’interazione, cioè il suo comportamento e ciò che può davvero fare in prima persona.

In altre parole più che attraverso un criterio di efficienza in termini di vittoria/sconfitta (che sono sfuggenti) si potrebbe tentare di valutare la partecipazione a una discussione attraverso il criterio del bene potenzialmente generabile per se stessi e per gli altri nel procedere o meno nel confronto. Un criterio non di affermazione, ma di apertura a una possibilità e di riconoscimento di un limite. Una discussione allora sarà da condurre fino a che potrà almeno potenzialmente apportare un certo beneficio sugli interlocutori (anche se non avrò la certezza che quel beneficio arrivi a destinazione) e di contro la si dovrà interrompere nel momento in cui apporterebbe solo un male e un danno a chi la conduce e chi ne è coinvolto.

Secondo Andrew Aberdein la virtù principale dell’argomentazione dovrebbe essere quella di propagare la verità (propagate truth)[7], cioè una buona argomentazione in una discussione dovrebbe avere l’effetto di diffondere credenze fondate rispetto a quelle infondate. Prendendo spunto da questa prospettiva, che si inserisce nel filone di riflessione sulle virtù dell’argomentazione[8], potremmo arrivare a dire che il bene della discussione ha a che fare non solo con la verità, e quindi con la conoscenza attendibile, ma anche con l’accettazione di questa conoscenza attendibile da parte dei partecipanti alla discussione: la sua propagazione appunto.

Ciò implica che in una discussione ci sono almeno due livelli da considerare: quello della bontà (o meno) delle argomentazioni che ne emergono, ma anche quello della bontà (o meno) degli argomentatori e dei loro scopi nella discussione. A contare in una discussione non è soltanto ciò che si dice (l’argomento), ma anche e soprattutto l’atteggiamento più o meno virtuoso degli interlocutori, siano essi gli argomentatori attivi o coloro che assistono.

Raccogliendo tali spunti e cercando di applicarli alla situazione di una discussione non controllabile a cui partecipano interlocutori disomogenei, si potrebbe provare a tenere i due piani (quello dell’argomentazione e quello degli scopi degli argomentatori) distinti ma intrecciati, per capire quando un confronto può portare un beneficio e quando no.

Il bene possibile nelle discussioni

Ora, se assumiamo come effetto virtuoso della discussione la propagazione della verità, cioè il diffondersi del sapere attendibile e fondato, possiamo dire che questo effetto si può realizzare al suo massimo quando coincidono due condizioni: la presenza di una questione oggettiva e davvero rilevante da affrontare (piano dell’argomentazione), e al contempo il fatto che i partecipanti alla discussione abbiano lo scopo di raggiungere maggiore chiarezza su quella questione attraverso la discussione (piano degli argomentatori).

Tali condizioni però vanno intese come solo sufficienti perché possono essere presenti in una discussione anche in modo imperfetto, per esempio quando un argomento oggettivo viene sollevato e portato avanti da un argomentatore che non ha lo scopo di capire meglio o crescere nella conoscenza, ma quello di esprimere la sua posizione rispetto agli altri, oppure di disturbare e distruggere. Oppure si può avere anche la situazione opposta: un interlocutore con lo scopo genuino di contribuire a una discussione apporta argomentazioni che sono soggettive, poco rilevanti o addirittura inadeguate al tipo di questione.

La mia tesi è che anche in queste situazioni miste vale la pena affrontare la discussione perché la presenza di un bene, per quanto mescolato a vizi e deragliamenti da parte degli interlocutori, può ancora permettere al sapere di propagarsi in quel sistema complesso di relazioni che attiva ogni discussione[9].

Tutto ciò ci porta a una prima, parziale, conclusione: una discussione può essere terminata, o nemmeno iniziata, se non si riscontra in essa almeno un potenziale bene riguardante l’argomento trattato o gli scopi di chi lo sta sollevando. Sono i casi delle questioni soggettive sollevate con il puro scopo di posizionarsi rispetto agli altri (dimostrare la propria superiorità, dichiarare i propri gusti senza davvero argomentare), o con lo scopo di disturbare insultando e aggredendo gratuitamente gli altri interlocutori.

Quando in una discussione si arriva a non avere più una questione oggettiva e rilevante da trattare e non c’è nemmeno lo scopo minimo di contribuire, siamo di fronte al caso del “piccione della scacchiera”, in cui l’unico vero bene è accettare il limite: evitare di aggravare il male che si potrebbe arrecare proseguendo nel discutere.

Allo stesso tempo ogni volta che invece ci sia almeno una questione rilevante – per quanto posta con intenti opachi dagli interlocutori – o al contrario un desiderio di contribuire alla discussione seppure espresso tramite argomentazioni inadeguate, vale sempre la pena dare seguito e affrontare il confronto visto che in esso sono implicati dei beni perseguibili seppure in forme imperfette.

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