La “mossa del gattino”: l’autoironia per alleggerire il sovraccarico nelle discussioni online.



di Bruno Mastroianni, ExAgere, marzo 2019

Mi è capitato di incontrare online un meme interessante: vi sono ritratti tre bicchieri, identici, riempiti a metà; sul primo è riportata la frase “il bicchiere è mezzo pieno” e sopra indicata la dicitura: “ottimista”; sul secondo, “il bicchiere è mezzo vuoto” e il corrispettivo: “pessimista”; sul terzo c’è scritto “questo bicchiere mi offende” e come dicitura: “internet” [1]. Difficilmente si potrebbe sintetizzare meglio una realtà che è sotto gli occhi di tutti: il web è un luogo dove, nelle continue discussioni e interazioni quotidiane, le reazioni sembrano essere spesso eccessive, guidate dal fatto che ci si prende molto sul serio e si prende ogni cosa troppo sul serio.

Il problema è evidente sui social, dove qualsiasi tema venga affrontato sembra non solo scatenare guerre tra sconosciuti o semi-sconosciuti, ma si riversa nelle conversazioni e interazioni più quotidiane tra amici, fino ad arrivare nelle chat di WhatsApp, come quelle dei genitori di scuola che più di una volta sono finite al centro del dibattito a causa della violenza verbale e degli scontri che si consumano in esse[2].

Insomma, sembra che online ci sia una certa tendenza alla pesantezza e alla seriosità nell’affrontare il confronto con gli altri, come se si fosse sottoposti a una costante pressione che non permette di rimanere distaccati, sereni, capaci di interagire in forme umanamente sostenibili.

Il triplice sovraccarico

Una prima ragione di questa pesantezza va ricercata in quello che si potrebbe definire “sovraccarico di differenze”: l’iperconnessione in cui siamo immersi ha messo tutti nelle condizioni di incontrare costantemente la differenza dell’altro[3]. Una differenza che si manifesta tra l’altro nella sua versione psicologicamente più impegnativa (perché simbolica e mentale) attraverso le parole, le immagini, i prodotti digitali di comunicazione, e priva di quel naturale regolatore delle relazioni umane che è il corpo assieme a tutto il suo corredo di comunicazione non verbale[4]. Persone con differenti sensibilità e prospettive, che vivono differenti contesti e luoghi, si cimentano in continui scambi di frasi, immagini, testi, in situazioni decontestualizzate nel tempo e nello spazio. In questo clima, ogni utente è sottoposto alla pressione di dover costantemente difendere e rielaborare in parole scritte e argomentazioni le sue posizioni di fronte ad altri.

La seconda ragione va ricercata nel narcisismo: ognuno di noi ha la naturale tendenza a volersi mettere in mostra, a riferire l’intera realtà che ha attorno alla propria situazione, cercando riscontro delle proprie idee e convinzioni[5]. Tutto questo non è stato inventato dal web, non è un prodotto strettamente tecnologico (potremmo piuttosto definirlo un prodotto umano tipico); la tecnologia, casomai, o meglio l’interconnessione prodotta dalla tecnologia, ne ha aumentato le possibilità e le potenzialità[6] portando a un vero proprio “sovraccarico valutativo”: ognuno con il suo smartphone e i suoi account non solo ha un pulpito e un palco più ampio da cui esporre se stesso[7], ma è anche esposto ai giudizi molteplici a cui quel pubblico lo sottopone in ogni momento. La maggiore possibilità di dare sfogo al proprio ego ha insomma come contropartita anche un mondo che – grazie all’interconnessione e alla partecipazione di tutti gli altri – più intensamente di prima si presenta come non facilmente “riducibile” ai propri gusti, interessi, idee, ecc.

E qui una terza pressione, anche questa proveniente da una dinamica che viene da lontano, che con il web ha raggiunto una sorta di maturazione: l’essere costantemente tirati in ballo in un flusso di questioni e discussioni di tendenza su cui è irresistibile non intervenire: è il “sovraccarico di discussioni”. Nella connessione con gli altri sentiamo tutti la pressione a dire la nostra sui temi che vengono portati all’attenzione dall’agenda mediatica o dalle dinamiche interne alla rete, spinti non solo dalla paura di essere tagliati fuori (l’effetto FOMO, Fear Of Missing Out[8]) ma da una preoccupazione ancora più profonda: non riuscire a emergere nel flusso attraverso l’espressione della propria opinione[9] che diventa quasi un atto di affermazione della propria esistenza.

Sovraccarico di differenze, di valutazione, di discussioni[10] formano una specie di cocktail che produce quei fenomeni di costante nervosismo, stato emotivo instabile, polarizzazione, in cui ogni tema diventa una questione cruciale su cui fare una guerra di parole tutta articolata in formulazioni binarie: a favore / contro, noi / loro, verità / menzogna, ragione / torto[11].


Insomma, l’essere umano iperconnesso ha bisogno di una cosa su tutte: ritrovare una via della leggerezza per allentare la pressione del sovraccarico in cui si trova a causa delle tecnologie digitali. Ora, qui si apre uno spartiacque importante, perché le vie per l’alleggerimento della pressione digitale possono essere molteplici. C’è tutto un filone della riflessione sul tema – di solito molto frequentato dal dibattito mediatico – che propone come soluzione lo “spegnere”, il disiscriversi dai social, la disintossicazione dai dispositivi[12].

Il difetto che accompagna queste prospettive del digital detox è quello di concentrarsi sul ridurre, ingabbiare, se non eliminare la connessione stessa senza dare reali risposte su come vivere connessi in modo soddisfacente. Si tende insomma a mettere la tecnologia al centro, come se fosse sostanzialmente qualcosa di troppo forte rispetto all’essere umano che si trova inevitabilmente preda di essa[13]. L’impressione è che questa visione dello “spegnere” sia vittima essa stessa della pressione dovuta al sovraccarico e sia frutto di un’eccessiva presa sul serio di se stessi e della propria condizione di esseri umani connessi dalla tecnologia, vista come un nemico invincibile che minaccia la propria autonomia e il proprio benessere.

La via della leggerezza dovrebbe allora procedere a un livello più radicale, collocandosi laddove ciascuno possa agire trovando in se stesso le risorse per praticarla proprio mentre è connesso. Il punto infatti è che, volenti o nolenti, siamo iperconnessi e, a meno che uno non possa vivere da eremita o con dei privilegi notevoli, in un modo o nell’altro dovrà avere a che fare con le tecnologie digitali per vivere nella società odierna.. VAI ALL’ARTICOLO INTEGRALE