Un anno di #diariopendolare



Oggi, un anno fa, dopo essermi trasferito da Roma a Firenze (pur continuando a lavorare nella Città Eterna), iniziavo a tenere un diario delle mie avventure di viaggio da pendolare. È un anniversario per me importante: rimettendo assieme tutti questi testi mi sono accorto che non sono solo episodi  più o meno divertenti, ma la storia del cambiamento che ho vissuto e che tuttora è in corso. È proprio vero, per quanto descriviamo situazioni, riportiamo scene a cui assistiamo, ragioniamo su eventi che implicano altri, alla fine raccontiamo sempre e solo una cosa: ciò che siamo. Una volta un caro amico mi disse che il mio più grande difetto è che sono "altalenante". Aveva ragione. Viaggiare per me non è più un'attività per spostarmi, ma una condizione di vita: sono diventato pendolare dentro. Forse è per questo che, tra un movimento e l'altro, apprezzo sempre di più l'importanza di avere un posto dove tornare, da chiamare casa.


11 gennaio

Cose da imparare in poche ore per sopravvivere alla vita di treno:

1. Avere con te SEMPRE spazzolino e dentifricio (casa è distante, le persone attorno a te no).

2. Non sbagliare MAI carrozza né posto a sedere (è da viaggiatori occasionali).

3. Non farti chiedere MAI dal controllore di esibire l'abbonamento (lo devi sfoderare con tempismo e naturalezza prima ancora che te lo chieda).

4. In stazione: non guardare MAI due volte il cartellone al binario (altra mossa da viaggiatori occasionali, piena di stigma tra noi pendolari).

5. Aprire SEMPRE il tavolino e metterci SEMPRE sopra il laptop (mica viaggiamo per piacere, per noi sono ore di lavoro, tutti lo devono notare).

6. Imparare a escludere la funzione uditiva durante gli avvisi - SEMPRE identitici - di Trenitalia. Alla 20esima volta che ascolti in due ore ti ritroverai, senza volerlo, a muovere la bocca come in playback. Non te li togli per giorni dalla testa.

7. Tornare. SEMPRE.

15 gennaio

Firenze, sera, tramvia. Fermi alla stazione attendiamo che le porte si chiudano e che il tram parta (anche perché fa veramente freddo).

Guardo un ragazzo che è di fronte a me. È africano. Sta davanti alle porte aperte sul vagone; io sono sul lato opposto appoggiato a quelle chiuse. Mentre lo guardo, si sente il fischio che avverte della partenza. Proprio in quel momento mi accorgo che fuori, sulle scale della stazione, c'è un tipo elegante che, sentendo il fischio e vedendo le porte chiudersi, inizia una corsa disperata per salire sul tram.

Mentre considero con distacco che non ha nessuna chance, noto che il ragazzo nero - anche lui accortosi del dramma del tizio che si sta scapicollando - con disinvoltura infila il suo piede nella fessura rimasta ancora aperta delle porte. Risultato: in automatico i due pannelli a scorrimento - ormai serrati in faccia al corridore - si fermano e si riaprono, e lui entra.
Il ragazzo fa come se non fosse successo niente e l'uomo, ormai dentro, si guarda attorno dicendosi "che botta di fortuna!", soddisfatto. Rimango di stucco. Realizzo di essere l'unico ad aver notato la scena.

A quel punto ripenso all'intera dinamica e formulo un proposito sincero: la prossima volta che vedrò qualcuno in difficoltà, invece di farmi i fatti i miei, ci metterò del mio.
Se non altro un piede.

19 gennaio

Quei bar che il cornetto costa 1 euro e il saccottino 1 euro e 20; e devi fare lo scontrino prima; e la cassa è lontanissima dal banco; e tu decidi solo all'ultimo; e a Roma se dici "cornetto" tutto è cornetto anche al banco; ma in certi bar d'Italia ordini caffè e saccottino e il barista dice: "eh no, il saccottino costa di più, tu hai pagato una brioche" (sì ti dice proprio "brioche" così, con sfacciataggine); e tu alla fine prendi una brioche (dicendo "briosce") con la marmellata (che non è neppure buona); e pensi che Roma è lontana; e pensi che non è comunque in un bar che troverai consolazione; e pensi che alla fine "cornetto" non è solo una parola, ma un grido di libertà di poter scegliere cosa mangiare all'ultimo momento, al banco, dopo aver dato un'occhiata, senza dover dichiarare in anticipo i tuoi intenti.
Hasta la victoria del cornetto polisemico siempre!


23 gennaio

Le bufale, si sa, sono la piaga della nostra epoca. Si sono diffuse pure sui treni e condizionano ogni giorno il comportamento dei passeggeri. Ecco le 3 più gravi false convinzioni che si sono ormai affermate sui convogli che viaggiano nel nostro Paese:

- Se spingi chi sta davanti a te, in arrivo in stazione, le porte del treno si aprono prima. La variante è per il treno in arrivo: se fai un capannello al binario, sgomitando davanti alle porte a casaccio, il treno parte prima.

- Le ascelle non hanno bisogno di essere lavate sempre. Stesso dicasi per l'uso del deodorante.

- Se vedi un video col volume alto non dà fastidio a nessuno. Vale anche per la suoneria delle telefonate (delicatissima quella con la salsa tratta dal corso di ballo latinoamericano che hai appena iniziato) e per il volume della voce: le persone sono contente di sentir strillare che la Zia Giovanna ha preso le pillole.

Per favore stoppate la diffusione delle fake news sui treni.


26 gennaio

Milano. 6:45 di mattina. Stazione Centrale. Assonnati al bar io e quelli che sembrano alcuni tecnici della manutenzione di qualche ditta dall'acronimo strano, ci aggrappiamo ai nostri cappuccini bollenti, cercando il grip per avviare la giornata. A un certo punto tra a me e loro si affaccia al bancone una ragazza alta, bionda, graziosa, molto elegante. A quanto pare una modella. Con disinvoltura ordina: "un vino bianco". Il cameriere non si scompone e risponde prontamente: "fermo o mosso?". E lei: "fermo". Il cameriere riempie tre quarti del calice dicendo: "è uno Chardonnay". Lei annuisce con serietà. Poi afferra il calice con grande stile, lo porta alla bocca e, con un unico sorso, lo butta giù. Poggia il bicchiere. Lascia i soldi e se ne va con eleganza rumoreggiando con i tacchi altissimi.

Io e i tecnici, impietriti, ci guardiamo. Poi guardiamo l'ora. Infine torniamo a guardarci. È in quel momento che ci sentiamo retrogradi, insulsi, poco creativi, per niente eleganti. È in quel momento che con fierezza ci stringiamo alla calda e rassicurante banalità delle nostre tazze di cappuccino.


31 gennaio

Firenze. Stazione. Mattina. Solita fila al bar per guadagnarsi un caffè prima della partenza. Un signore dietro di me sbuffa e scalpita, mi dà delle spinte quasi impercettibili (come se questo potesse accelerare in qualche modo le operazioni), ha fretta. Ad un tratto un tizio, situato subito dietro di lui nella fila, si accosta a sinistra e appoggia il gomito sul bancone del bar, mettendosi di fatto in posizione parallela allo scalpitante, che a quel punto immediatamente sbotta: "guardi che c'ero prima io!". Il tizio appoggiato lo guarda negli occhi, sorride benevolo, e con un elegante accento toscano fa: "che dice posso appoggiarmi?". Rimango sorpreso per come riesce a dirlo con tono sinceramente pacifico e privo di polemica. A quel punto il frettoloso, quasi a giustificarsi, nervosamente ribatte: "è che ho un treno!". L'altro di nuovo sorride e in perfetto fiorentino: "tutti abbiamo un treno, vedrà che lo prendiamo", ravvivando il sorriso pacioso con un guizzo degli occhi azzurrissimi. Il tizio nervoso a quel punto rimane ammutolito e interrompe anche le microspinte che mi stava somministrando con regolarità.

Arriva il mio turno alla cassa, mi giro di nuovo, ma non trovo più il pacifico signore appoggiato. Chissà dove era finito...

Ci ripensavo ora, tornando a casa. Mi piace pensare che fosse già da qualche altra parte con il suo tono elegante e i suoi occhi di cielo a mettere pace nel cuore di qualche altro viandante troppo preso dalla sua corsa quotidiana.


6 febbraio

Firenze, esterno, giorno piovoso. Sono in giro con i miei due bassotti, Drago e Pepe, appena portati da Parigi (una storia troppo lunga per raccontarla qui). Un signore al passaggio pedonale del semaforo li guarda e mi dice: "Hanno freddo?". Noto che ha un accento per nulla fiorentino. In effetti i cani stanno tremando visibilmente. Ma non fa freddo: è solo il loro modo di esprimere tensione in una nuova città. Lo spiego al tipo e lui mi fa: "eh, loro sì che sono sinceri, noi anche se siamo spaesati mica lo mostriamo". Mentre lo dice sento distintamente il suo accento che suona di consapevolezza e di trasferimenti da città lontane. Sorrido al tipo, grato per il bel pensiero e, per un attimo, avverto anche io il desiderio di tremare, magari anche solo un po'.
È lì che Drago e Pepe tirano i guinzagli e mi fanno capire che è verde: è ora di ripartire, di attraversare, di andare avanti.


10 febbraio

Roma. Giorno. Da qualche parte nel piano seminterrato della Stazione Termini. Cammino in cerca di una toilet. Davanti a me i tapis roulant che trasportano persone nella direzione opposta alla mia. A un certo punto vedo una scena come al rallenty: una signora, nel momento di fare il passo di uscita dal tapis roulant, pesta con un piede il laccio dell'altra scarpa che si è incastrato nella fessura di fine corsa; fa ancora un passo e precipita atterrando con tutto il peso su un gomito. Non faccio in tempo a elaborare la scena che è già per terra. Il rumore sordo mi fa vibrare le ossa di dolore. Corro a soccorrerla e, in poco tempo, siamo circondati da diversi tizi in divisa: vigilantes, persone di servizio della stazione, quello che sembra un agente di sicurezza. Tutti con le radio, si interessano, chiamano l'ambulanza, si danno da fare per risolvere la situazione. Mi compiaccio per una stazione così controllata e efficiente. Realizzo che tutto ciò è dovuto all'allarme terrorismo. E mentre dico alla signora "stia tranquilla, è solo un gomito..." rifletto sul suo sorriso dolorante e sul fatto che è proprio vero che le crisi sono a volte l'unico modo per far cambiare le cose.


11 febbraio

Quando sei pendolare e lavori in tre città c'è una cosa fondamentale da curare: lo zaino. Lo zaino è ufficio, armadietto, archivio, assistente, confidente. È grazie a lui che puoi lavorare in ogni situazione trasportando il laptop nell'apposita sezione. È grazie alla tasca davanti che avrai spazzolino e dentifricio sempre pronti a cancellar tracce di pasti frugali. È lui che ti porgerà l'acqua con un colpo di zip quando avrai sete, l'ombrello dalla fodera destra quando piove, il cappello dalla parte superiore quando fa un po' più freddo, l'abbonamento dal taschino laterale quando passa il controllore, il libro (che sta sul fondo da 6 mesi e che non riesci mai a leggere) quando avrai finalmente un momento di respiro. 

Lo zaino è un compagno fedele che ti facilita il cammino. E gliene va reso merito.
Ma c'è una cosa che non potrà mai soddisfare (per quanto lo preparerai bene la sera prima riponendo ciascun oggetto nel posto giusto): lo zaino non riuscirà mai a toglierti la voglia di tornare a casa, da chi ti vuole bene senza zip né comparti utili.


23 febbraio

Giorno. Interno treno Frecciarossa. Carrozza n.9. C'è un rumore infernale. Il vociare della gente è così forte che faccio fatica a tenere a mente ciò che sto leggendo. Ricevo una telefonata, il chiasso di fondo è tale che la persona dall'altra parte mi dice: "sei a una festa?". Infastidito, inizio a provare un sentimento negativo generico e onnicomprensivo che coglie tutta questa "gente che strillano" in un sol colpo. Allora, per crogiolarmi ancora meglio nel mio sdegno, decido di concentrarmi sul rumore, valutando con esattezza il livello di increanza di ciascuno. 

La fonte di rumore più vicina è costituita da un uomo e una donna asiatici che stanno parlando una lingua dal suono fastidioso. Mi concentro su quelle parole sgraziate in cerca della loro colpa. Più mi focalizzo più mi rendo conto però che quel suono non è fastidioso in sé, ma non abituale per le mie orecchie, e che il volume non è nemmeno così alto. Allora proseguo: due posti più in là sento un tizio che continua a ripetere "mi senti?". Lo intravedo vestito elegante e un po' agitato mentre al telefono riesce solo a accennare scampoli di un discorso complesso e serio, interrotto dalla linea instabile. Cerco una colpa nel suo alzare il tono di tanto in tanto, ma mi accorgo che lo fa più trasportato dalla gravità del tema che per maleducazione. Inizio a prenderci gusto: più avanti c'è un signore con accento del nord che parla con una donna, dal tono si capisce che non la conosce, probabilmente l'ha incontrata per la prima volta sul treno. Non è alto il volume della sua voce, è solo molto fitto il suo modo di parlare. Si unisce al resto del rumore aggiungendo fastidio, certo, ma mentre ci penso realizzo che è il tipico riflesso a riempire i silenzi che abbiamo tutti quando si parla tra sconosciuti.

Insomma vado avanti così per 10' buoni. E più cerco l'errore da stigmatizzare e più trovo motivazioni umane, situazioni comprensibili, ragioni. E inizio a provare una certa simpatia; come per quegli schiamazzi ridanciani fatti di "raga" e "proffe" che provengono dal fondo del vagone, evidentemente appartenenti a studenti in trasferta.

Ormai il rumore fastidioso iniziale è diventato il vociare di un piccolo cosmo di umanità variegata. E mentre valuto che, tutto sommato, quel microcosmo non è così male, ripenso a come è diverso dalla massa informe fastidiosa con cui lo avevo definito.

Sorrido. Capisco che, alla fine, per quanto mi piacerebbe essere infastidito da un unico blocco di anonimi incivili, sono solo circondato da vite di persone che si stanno intrecciando con la mia. Facendosi sentire.

Il fastidio è nell'orecchio di chi generalizza.


27 febbraio

Me l'hanno portata via. Era l'ultimo pezzo superstite di un periodo della mia vita ormai chiuso. Era stata compagna fedele di una vicenda romana da abitante di Trastevere, sempre in giro per il centro, tra bellezze artistiche e scorribande professionali. Quella vita nel cuore della Capitale le si addiceva perfettamente col suo telaio dal colore raro.

Quando arrivarono i cambiamenti, però, aveva saputo seguirmi con coraggio, accettando la mia nuova condizione da pendolare. E non solo si era adattata: era diventata con grinta e nuovo entusiasmo il passepartout che mi permetteva di dominare Roma, in continua corsa contro il tempo, tra un treno e l'altro.

Ora, a te che me l'hai portata via, ci tengo a dirlo: non mi hai semplicemente "rubato la bici", mi hai tolto un pezzo di storia della mia vita.

L'unica cosa che mi rimane è fare quel che lei mi ha insegnato in questi anni: la vita è fatta di cicli e a contare non è l'ultima pedalata, ma la prossima... ovunque porti.


7 marzo

Mattino presto. Treno da Milano verso Roma. Sono tutto intento a confezionare slide per una nuova lezione. Concentratissimo e motivatissimo confeziono animazioni brillanti su web, social network, algoritmi, overload informativo, gestione delle connessioni, uso delle fonti, gestione della comunicazione conflittuale, e mille altre cose sagaci e intelligentissime. Mentre ci lavoro mi accorgo che il tizio seduto accanto a me sbircia abbondantemente. Mi sento intelligente, sveglio, mi compiaccio del mio lavoro. A un certo punto fa una mossa come per iniziare a parlare. Mi giro verso di lui tutto pronto ad accogliere chissà quale quesito che mi darà occasione di mostrare la mia competenza. Lui invece, in un italiano incerto, mi chiede aiuto perché il suo cellulare gli dà problemi. E indica col dito lo smartphone...

Lo guardo pieno di sdegno, vorrei dirgli: che mi hai scambiato per un tecnico? Non vedi le vette filosofiche che sto toccando? Ma la mia reazione istintiva si smorza subito perché lui aggiunge: vedo che sei "sperto"... E sorride tutto contento.

Quello "sperto" mi fa ridere come un cretino. E improvvisamente mi sento ridicolo per quanto "me la stavo credendo".

Decido di mettere da parte le fulgide slide e rendermi utile. Lui risponde con gratitudine.

Credo che inserirò "sperto" nel mio curriculum.


13 marzo

Sera. Firenze. Sulla via verso casa. C'è un uomo che sta sbraitando contro un altro. Gesticola nervoso, ringhia parole in modo aggressivo. Avvicinandomi sento chiaramente insulti e improperi davvero sgradevoli. La scena mi preoccupa abbastanza. Terminata l'invettiva l'aggredito fa per dire qualcosa. Penso: ecco, adesso scoppia la rissa. Ma il tizio guarda il suo aggressore e gli dice semplicemente: ma vai a studiare! E con la bocca fa la smorfia tipica di chi pensa che l'altro non sia stato all'altezza di qualcosa. L'interlocutore rimane ammutolito e sorpreso. Si crea un momento di stallo. Io proseguo verso casa, visto che ormai è tardi.

Non so come sia andata a finire. Di certo non dimenticherò mai quel modo geniale di smorzare l'aggressione.

"Vai a studiare!". In caso di litigio lo userò. A cominciare da a me stesso. Non credo ci sia modo più efficace di far percepire la violenza per quello che è: mancanza di argomenti.


18 marzo

Aereo Ryanair. Volo Palermo - Roma. Fase di atterraggio. Una signora in evidente stato di agitazione viene accompagnata ai posti davanti. Una hostess con lei. La fa sedere. Le chiude la cintura. La signora trema in modo strano. Si guarda di scatto a desta e sinistra, fa domande continue, respira a fatica. È panico. Non lo avevo mai visto così su un volo. Fa un'impressione tremenda. Ma quello che mi colpisce di più è ciò che fa la hostess. Si mette davanti alla signora, le tiene le mani (senza essere invasiva), le dice cose pacate e la invita a respirare. La signora invece si dimena, dice cose sconclusionate tipo "non c'è la pista!", "non ce la facciamo!", "è troppo veloce!". Facendo scatti folli con la testa a destra e sinistra. La hostess non si scompone. La ascolta e con tono pacato argomenta che la pista c'è, che ce la faremo, che non è troppo veloce ma è l'andatura giusta per atterrare in sicurezza. E intanto la invita a respirare. La signora nonostante gli scatti la segue, prova fiducia, ascolta, e a poco a poco si calma.

Impressionante.

Prendere sul serio l'altro, anche quando folleggia in preda alla paura, rispondendo con pazienza e argomentando, è così potente che funziona anche da antipanico.

Ho imparato di #disputafelice più in questa scena che in mille dibattiti esacerbati.


21 marzo

E dal comune di Firenze ti chiamano al cellulare per dirti che nel modulo manca un dato. Lo fanno con cortesia, provvedono loro a inserirlo, e ti dicono: "mi scusi eh".

Ho scelto davvero bene. Questa sì che è una città da chiamare casa.


28 marzo

Sono passate le mie prime 48 ore da pendolare assoluto con la bici pieghevole Brompton. Esperienze fatte finora: portata in Rai, portata in treno, portata in vari luoghi pubblici.

Risultati: ovunque benevolenza e accoglienza da parte delle persone.

Chissà perché avevo la sensazione che qualcuno avrebbe fatto problemi. Invece l'idea che uno si porti sempre con sé la bici trova una specie di approvazione spontanea.

Non so se venga colto il contributo ecologico oppure se sia semplicemente la peculiarità della situazione a creare il clima favorevole. Sta di fatto che le persone trattano bene chi è dotato di bici portatile.

Alla faccia di chi si lamenta sempre della scortesia, della maleducazione e dell'individualismo italiano.

Mi piace pensare che a creare il buon clima sia proprio la condizione di viaggiatore che si guadagna la strada da sé, senza dare fastidio (vista la compattezza del mezzo).

Magari sono un illuso e fra poco troverò chi mi maltratterà per l'accrocco che mi porto appresso. Ma quando succederà risponderò in romanesco: sai che me frega l'altri me vojono tutti bene!

Da adesso in poi infatti mi porterò sempre con me, assieme alla bici, anche la benevolenza che ha attirato.


30 marzo

Stazione di Firenze. Binario 11. Solita fila a "mucchio" davanti alla porta per salire sul Frecciaorssa. Nonostante l'assembramento ci teniamo saggiamente tutti a un metro di distanza dalla scaletta perché stanno per scendere le persone. A un certo punto una coppia di asiatici compare dal nulla e a velocità sostenuta - con classico seguito di trolley e trollettini - si insinua di lato con passo deciso verso la scaletta.

È il first strike. Nella folla inizia a montare la tensione verso una reazione scomposta di risposta. A quel punto però la donna, raggiunto l'obiettivo della folle corsa, alza lo sguardo, vede il crocicchio in attesa, sbianca; vede scendere i passeggeri dalla scaletta, realizza; fa un'espressione contrita, dà uno sguardo eloquente al suo uomo e, entrambi, umilmente, oscillando il capo a mo' di rischiesta di scuse, se ne vanno in fondo, dietro a tutti.

Il clima si rasserena subito. La turba non riesce nemmeno a lasciarsi andare al sospetto del "ce stavano a provà".

Io ne traggo tre insegnamenti da tenere a mente:

1. Ammettere gli errori paga sempre. Anche una folla mattutina inferocita non resiste al fascino dell'umiltà.

2. Quando si è determinati e di fretta, alzare ogni tanto la testa a considerare gli altri aiuta a focalizzare meglio il proprio obiettivo.

3. Alla fine bisogna andare in fondo alla fila. Se no sono tutte chiacchiere.


16 maggio

Termini. Arrivo ed è un inferno: tutti i treni in ritardo, minimo 50'. Il tabellone sembra una playlist di film con segnalata la durata. Davanti, una folla di gente spaesata e nervosa. C'è chi telefona con tono scocciato, chi messaggia freneticamente, chi sbuffa ogni due minuti facendo schioccare le labbra in segno di stizza. Poi ci sono loro: i poveri turisti. Non capiscono cosa stia accadendo, chiedono spiegazioni e non trovano nessun addetto che gli parli in inglese... alla fine si appoggiano a chi hanno attorno: un giovane, un elegante signore dall'aria professionale, una ragazza con la gomma da masticare che parla un po' di inglese mentre con la mano si arriccia i capelli. Davanti a quel cartellone di drammatici ritardi si crea una specie di convegno di mediatori culturali dediti a spiegare perché in Italia, quando qualcosa non funziona, il primo risultato è l'assenza di qualsiasi informazione. C'è solo una scritta che recita "ritardi per presenza di persone estranee in prossimità della linea dell'alta velocità". È stato divertente ascoltare come i mediatori improvvisati tentavano di tradurre "presenza di persone estranee in prossimità". Anche a me un tizio, apparentemente sudamericano, si è avvicinato e mi ha chiesto cosa succedesse. Non ho nemmeno provato a tradurre l'impossibile ma gli ho detto solo: "annatacosì, stacce!". Dapprima mi ha guardato strano, poi ha sorriso, e mi ha dato soddisfatto una pacca sulla spalla. È stato il mio modo per fargli capire quanto la cultura italica da tempo abbia imparato a fronteggiare ogni "prossimità di persone estranee" in modo diretto, rinunciando a qualsiasi traduzione velleitaria.


5 giugno

Meno la Metro passa
Più la gente si ammassa
Ed è subito ressa
#Roma


22 giugno

Quando fila tutto liscio le stazioni e i treni sono "non luoghi" asociali: ognuno fa il suo percorso, viaggia per conto suo. Poi un incendio sulla linea, il ritardo, treni annullati, caos, mancanza di informazioni. I treni a quel punto si trasformano: diventano comunità di esseri umani in viaggio; le stazioni piazze di mercato di idee e informazioni su ciò che succede e su come arrivare a destinazione. Le persone si parlano, le preoccupazioni si confrontano, nascono simpatie, si accennano scampoli di confidenza. Fino alla signora che - aiutata da un giovane a trovare il binario del suo treno - gli ha poi chiesto: "Lei in che carrozza è? Viaggerei più tranquilla sapendo che lei è nei paraggi".


3 luglio

Quando arrivi in stazione e vedi la colonna dei ritardi piena di cifre, ti prende lo sconforto. Poi scopri che i ritardi importanti riguardano tutte le altre linee tranne la tua che ha solo 10'. Allora gioisci, ma non fino in fondo: vincere la lotteria del ritorno non è così piacevole mentre attraversi la folla di volti sconfortati i cui rientri sono appesi a un tabellone.

Farsi i viaggi propri è facile finché ai binari tutto funziona. Appena qualcosa non torna sei costretto ad alzare lo sguardo e a contemplare quello in cui da sempre eri immerso: le vite degli altri che, con la tua, qui si intrecciano ogni giorno.

Sono i problemi, le debolezze, gli inciampi, a unirci, non l'indifferenza di ciò che fila liscio. Non solo in stazione.


24 luglio

Frecciarossa 1000. Tratta Firenze - Roma. Pochi minuti fa. Un botto improvviso sul finestrino nel posto davanti al mio. Ci prendiamo tutti un colpo: la parte esterna del vetro si è frantumata (pur rimanendo intatta). Si vede il punto preciso dove è avvenuto l'impatto. Un sasso? Un detrito vagante? Ora il capotreno e i tecnici stanno facendo i rilievi e predisponendo gli interventi alla prossima stazione. Noi passeggeri, terrificati, cerchiamo di dissimulare perché sappiamo che lanciati a 300 all'ora dentro un tubo di lamiere non è il caso di farsi prendere dal panico. Una signora davanti a me da quando c'è stato il botto si tiene la mano sul cuore.


13 ottobre

Giorno. Treno alta velocità. Da qualche parte in Italia. Un signore distinto, seduto qualche sedile più avanti a me, sull’altro lato del corridoio, tira fuori il suo tablet. In base alla giacca elegante, i capelli argentei, la postura seria, dentro di me deduco: il classico professionista che approfitta del viaggio per lavorare. Mentre sono preso da questi pensieri compiaciuti sull’efficientismo professionale, lui accende il tablet. Sullo sfondo dello schermata home si intravede una foto di una donna; l’immagine non è un granché, la donna sembra non giovanissima ed è a letto, rintanata sotto le coperte, come se stesse poco bene. Però ha un sorriso luminoso. Il distinto manager avvicina l’iPad alla bocca e bacia la foto della donna, con precisione, sul volto. Poi si mette a lavorare intensamente. Rimango per un attimo imbambolato come incapace di coniugare la precedente scena, professionalmente affilata, con il gesto successivo, teneramente innamorato. Lo confesso: il primo pensiero è stato di nobile sdegno: “quanto dovremmo saperci fermare in questa vita in cui andiamo sempre di corsa”, ho pensato... poi però, osservando il tizio lavorare con inusitata concentrazione, ho iniziato a realizzare. Non ero affatto di fronte a un afflato elevato, non era un trasporto sentimentale, una parentesi debole nella solidità dell’homo faber; era invece un un gesto di concreta e solidissima efficienza. Quel tipo con il suo bacio al touch screen illuminato stava ricordando a se stesso (e a noi distratti viaggiatori abitudinari) che la domanda che elimina davvero le dispersioni di tempo non è “come, cosa o quanto fare” ma “per chi?”.


4 novembre

Firenze. Ore 5.15 del mattino. Nel tragitto da casa verso l’aeroporto, guardando le email tra i fumi del sonno, realizzo che il mio volo è stato cancellato. Sorpresa, scoramento, smarrimento, e poi: invettiva. Dentro di me ripercorro l’elenco delle inefficienze italiane: l’inadeguatezza di certi aeroporti, l’insufficienza strutturale della rete ferroviaria che costringe a muoversi spesso in aereo, il letale mix tra i due. Penso alle lentezze delle amministrazioni, il sud sempre in affanno, i campanilismi del centro-nord, la miopia decisionale, la burocrazia, la frammentazione politica, i notav, i comitati cittadini contro gli ampliamenti degli aeroporti. Appare davanti ai miei occhi un intero paese ostile: tra Firenze e Lamezia Terme un’enorme distesa di 800 km di individualismi, provincialismi, clientelismi... e mentre vado avanti in questi pensieri, proprio quando sono sul punto di finire gli *ismi a cui attribuire tutte le colpe, mi sveglio come da un torpore. Realizzo che l’unica cosa da fare è arrivare. Apro l’app di Trenitalia, scorgo un treno con cambio a Napoli che mi può portare a Lamezia in poco più di 7 ore e lo prenoto mentre chiedo al taxi di invertire la rotta e andare in stazione. Ora, seduto nella carrozza del Frecciarossa in corsa, penso al fatto che farò tardi e sarò più stanco, rifletto sulla fatica con cui bisogna guadagnarsi le cose, ma realizzo anche che, in qualche modo, riuscirò ad arrivare. Guardo di nuovo fuori da finestrino. Inizio a vedere quegli 800 km per ciò che sono, da vicino. Quella che da fermo sembrava una distanza insormontabile di avversità in un paese in affanno, in movimento è solo una strada da percorrere, da affrontare, un chilometro dopo l’altro. Procedere, andare avanti, non è mai una questione di tragitto più o meno agevole, ma di voglia di arrivare a destinazione.

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Epilogo della mia avventura di viaggio odierna. Sono stato a Lamezia Terme e ho potuto parlare della cosa che mi piace di più al mondo: la comunicazione. Sono state 7 ore di viaggio di andata, ora ne ho di fronte altre 4 fino a casa (in aereo, tutto regolare). Di fronte a queste 11 ore, le 2 ore cui ho potuto parlare potrebbero sembrare un spreco inefficiente. Invece la proporzione non regge, perché in quei 120 minuti ho avuto di fronte decine di persone che mi ascoltavano impegnate e che, con le loro domande e osservazioni, mi hanno restituito molto più che 11 ore di studi, esperienze e riflessioni. Perché è così che funzioniamo: quando ci mettiamo insieme a ragionare, quando ci confrontiamo, quando “mettiamo in mezzo” agli altri qualche nostra pallida intuizione, diciamocelo, ci ritorna indietro molto più di quanto mai avremmo potuto aspettarci nel confezionare i nostri lucidi pensieri da soli. Quanto mi piace questa cosa cosa grande ma bistrattata, prioritaria ma sottovalutata, profonda ma anche mitizzata, a molti sconosciuta e quasi da tutti millantata, così umana e così ingiustamente tecnicizzata, che è la comunicazione.


14 novembre

Solo un pendolare conosce la felicità serale del tabellone delle partenze. Quella che prova a fine giornata quando, sempre un po’ trafelato, lancia il suo sguardo per scorgere il binario giusto, il numero esatto della corsia dove troverà il treno che lo porterà a destinazione. Anche solo vedere quella cifra luminosa è una promessa. Si parte, ancora una volta, per l’ultima volta oggi. Per quanto sarà lungo il viaggio, per quante ore ci vorranno, si arriverà nell’unico posto che davvero dà senso a tutto questo pendolare: si torna a casa.


21 novembre

Il mitico 1D, il posto più ambito da ogni pendolare. C’è solo sui Frecciarossa vecchi, non sul 1000 che ha solo file da due. È bello non tanto perché stai da solo (che ha i suoi grandissimi vantaggi), ma perché hai la sensazione di uno spazio tutto tuo: un rifugio, un cantuccio in cui goderti davvero il viaggio. Ma una cosa su tutte lo rende così speciale: avere un livello di comodità simile alla prima classe (lo spazio vitale ampio) pur rimanendo nella zona dei viaggiatori comuni mortali. Il vero privilegio è ciò che ci godiamo come tale.


30 novembre

Regionale veloce Perugia-Roma. Il controllore entra nella carrozza e chiede il biglietto a un uomo di mezza età cingalese imbacuccato che se ne sta lì, immobile, con lo sguardo basso. Il controllore capisce, come fosse abituato a quella posizione, e dice: “prego”, allungando il braccio nel gesto di indicare l’uscita del treno. L’uomo a quel punto alza lo sguardo e lo punta dritto negli occhi dell’addetto, supplicante. Il controllore gli risponde anche lui con uno sguardo fisso, rassegnato. Sono stati così solo per un attimo, ma in quell’attimo qualcosa è successo, come se si stessero intendendo, sintonizzati su un livello profondo, nascosto. Vedendoli da fuori in quell’istante avresti giurato che fossero amici, confidenti. Ma il momento è durato niente. Subito dopo un nuovo “prego” li ha rimessi nelle rispettive posizioni. Il signore cingalese è sceso con la testa bassa, trascinando i piedi. Il controllore ritto e autorevole, da sotto la visiera del suo cappello ha seguito il percorso del “senza biglietto” con lo sguardo. Un altro tipo di sguardo.


4 dicembre

Mangiare panini contemplando l’Italia che scorre. Una delle cose che amo di più fare in treno: andare nella carrozza bar, mettermi “fronte finestrino” e mangiare lentamente contemplando un paese che scorre velocissimo. Campagna, collina, casa grande, casa piccola, agglomerato di casette, paesaggio cittadino degradato, stazione, ponte, piccolo gregge, traliccio, fosso, silos abbandonato... sembra quasi un codice, la sceneggiatura di uno di quei film difficili che solo pochi sanno capire. Una sequenza di scene che vuol dire qualcosa ma non è facile coglierne il significato al primo sguardo. Dopo tanti mesi sto piano piano imparando a leggere questa grammatica del paesaggio sfuggente. Per ora, come quando si impara una lingua per la prima volta, riesco solo capirne il senso generale: l’Italia è davvero bella. Tornerò spesso a questo finestrino per coglierne tutte le sfumature.


5 dicembre

Breve elogio dell’intelligenza artificiale. Stamattina corsa forsennata in auto da Bassano del Grappa per arrivare a prendere un treno a Padova per Roma.

Il navigatore di Google ha:

- calcolato fin dall’inizio con precisione i tempi

- proposto di cambiare percorso in base al traffico

- fatto in modo che salissi su quel treno

Gli sono grato. Senza raccolta dati miei e di altri, senza elaborazione in base alla conoscenza del mio percorso e dei miei spostamenti, non sarei mai arrivato. Sarei ancora bloccato in fila sulla prima strada conosciuta, innervosendomi per la perdita del treno.

Prima di imbracciare forconi e fiaccole contro l’intelligenza artificiale, ricordiamoci quanto la rilevazione e elaborazione dei nostri dati ci migliori la vita.

Solo così, desiderando i suoi vantaggi, sapremmo abbandonare le invettive allarmate e vaghe, per essere precisi nel chiedere ai grandi della tecnologia di essere trasparenti e funzionali (che è la cosa davvero importante).

L’artificiale va giudicato con intelligenza.


13 dicembre

Cercare una stanza di hotel all’ultimo momento. Farlo dallo smartphone. Trovarla a prezzo stracciato, zona centrale, albergo stupendo, per di più: una quadrupla talmente grande che ci potrei organizzare un party.

Voi lamentatevi della tecnologia e dei pericoli del Uebbe; io - ricordandomi cosa succedeva solo qualche anno fa nella stessa situazione - mi godo le gioie della vita iperconnessa.


19 dicembre

Firenze. Stazione Santa Maria Novella, fermata tranvia. Un tizio che sembra ubriaco, grosso, con la faccia tumefatta, con indosso un piumino lurido, si aggira minaccioso tra la gente in attesa. Ha un aspetto terrificante. Fa paura mentre cammina e scruta le persone una a una come in cerca di una preda. A un tratto punta un signore asiatico, un po’ tracagnotto, con la pettinatura all’indietro, la camicia rosa salmone con i bottoni che tirano sulla pancia e un giacchetto verde un po’ ridicolo. Sembra il classico turista appena arrivato a Firenze. L’ubriaco, imponente e barcollante, si dirige verso di lui, gli si pianta davanti e dice biascicando: “japanese?”. A quel punto, letteralmente si butta su di lui facendo un passo deciso e cercando la collisione corpo a corpo. Per un attimo tremo figurandomi cosa sta per accadere. Poi, l’impensabile: il buffo signore non si sposta di un millimetro, rimane piantato a terra nella esatta posizione rilassata che aveva prima della collisione. Tanto che il tizio ubriaco dopo averlo urtato rimbalza e fa due passi indietro. A quel punto il “giapponese” lo guarda e gli fa: “che vuoi stronzo?” in perfetto accento asiatico. L’ubriaco lo guarda stupito (almeno quanto lo guardiamo tutti noi) e barcollando se ne va confuso. Arriva il tram. Il tizio “giapponese” entra e va a timbrare il biglietto sereno, salmonato e pettinato come prima.

Dormi sonni tranquilli Firenze, Jackie Chan è in città.


21 dicembre

Roma. Fuori dalla sede Rai di via Teulada. È tardi, l’ultimo treno per Firenze è alle 20.50. No motorini in sharing, no auto. Sono fregato. Chiamo un taxi, è l’unica possibilità di arrivare in stazione. Uso l’app, e già questo mi aiuta: attorno a me una decina di persone attendono inutilmente perché hanno chiamato al telefono. Tra la folla c’è anche Ronn Moss (non scherzo) assalito da gruppi di selfatori. Arriva il mio taxi. Ci si avventano sopra diverse persone. Lui abbassa il finestrino e urla: Mastroiannih? Mi faccio strada tra vips e personaggi televisivi vari (l’app è davvero la mia salvezza). Mi siedo dentro. Il tassista mi guarda dallo specchietto. Lo fisso e scandisco con tono grave: “me devi fa er miracolo, c’ho ‘n treno alle ott’eccinquanta”, e aggiungo: “vojo torna’ a casa”. Lui capisce la situazione e annuisce impercettibilmente chiudendo gli occhi per un attimo per poi riaprirli in un inquietante e determinato sguardo. Ha colto la solennità del momento, la richiesta disperata e, da romano a romano, risponde: “ce penso io, tranquillo”.

Segue corsa folle con sgommate fischianti, infrazioni sfacciate, sorpassi azzardati, vie prese fieramente contromano, il tutto condito da colpi di clacson assestati con nervosa e precisa maestria assieme a insulti altrettanto opportunamente distribuiti.

Ora, seduto sul treno nel mio amato posto 1D, penso a quante volte ho parlato male dei tassisti romani. Me ne pento. Da oggi in poi non dimenticherò questo servizio che nessun altro potrà mai dare a un viaggiatore disperato. Ho le palpitazioni. Non è la paura, non l’adrenalina e nemmeno l’ansia: è er core che s’accenne de gratitudine. E allora penso: certo è bello il carsharing, bella la smartcity, belle le app, ma si nun era pe’ sto tassista romano cazzuto cor c@??0 che tornavo a casa.