Ok, siamo nell'epoca della post-verità ma pre c'è sempre l'uomo

di Bruno Mastroianni


Post-truth è stata scelta come parola dell'anno da Oxford Dictionaries per designare il fenomeno della disinformazione che corre sul web e condiziona la vita delle persone. Il termine è interessante e descrive bene la realtà però non dimentichiamo: la novità non è il fenomeno in sé (cioè la tendenza dell'uomo a credere a informazioni anche false se confermano i suoi pregiudizi) ma la sua misurabilità (grazie al web).

 Prima, semplicemente, si vedeva meno. L'ingoranza, la credulità, le superstizioni, ogni forma primitiva di rapporto con le informazioni e la conoscenza si vivevano nel privato delle proprie case o nelle aree sociali circoscritte delle proprie vite. È stato il web a rendere tutto questo visibile, trasversale e quantificabile, perché tutto rimane scritto nero su bianco, anzi di più: a caratteri digitali su schermo retroilluminato.

Non sorprende che ci sia chi ne approfitta per guadagnarci in termini economici o politici. Anche qui: è veramente così diverso dal passato o semplicemente si vede di più, si può misurare meglio? La realtà è che nella storia umana non è mai esistita l'epoca della non ignoranza. La sfida educativa e culturale è continua. Averne più contezza, poterla osservare con precisione, è un vantaggio, non deve scoraggiare (anche se impressiona).

 In questo senso è molto problematico il desiderio di filtro che si vede serpeggiare: Facebook dovrebbe bloccare odio e notizie false, Google dovrebbe provvedere alle bufale? Certo, il web odiante e disinformato non piace a nessuno, ma la soluzione non è certo affidare a un'autorità il potere di decidere cosa vada e cosa no. Cancellare dall'alto ciò che spiace infatti assomiglia al buon vecchio "darsi un contegno": non toglie il male, lo nasconde.

Occorre guardare il più possibile in faccia l'ignoranza e la grettezza umana, per capire da dove viene e come si evolve, per occuparcene. Invece del filtro a priori ci vuole un "filtro palla al piede": ognuno nei suoi spazi dovrebbe fare la fatica di tenere pulito il web (vale anche per i media e per le istituzioni) moderando i commenti, controllando bene ciò che condivide e su cui mette like, coltivando connessioni rilevanti e attendibili. Non "darsi un contegno" ma "dare strumenti e risposte" anche a chi cerca lo scontro. Questo sarebbe un contributo all'odio e all'ignoranza. Affronterebbe il problema, non lo leverebbe dagli occhi.

 Alla radice di tutto questo c'è un errore interpretativo: confondiamo Google, Facebook, il web in generale, per media classici. Non è il loro potere di selezione (via algoritmo) a spacciare bufale o a filtrarle, ma il modo con cui gli utenti coltivano le relazioni online. Certo gli algoritmi devono essere il più efficienti e trasparenti possibile, ma sono gli utenti che in ogni momento decidono se cercare conferme alle loro credenze (tendenza istintiva) o se confrontare, controllare, coltivare dubbi e verificare prima di condividere. La disinformazione non si diffonde per algoritmi ma per i click degli esseri umani. Non è internet, è l'uomo che agisce in rete.

Serve cultura e educazione. Il problema è che spesso a scuola, in famiglia, tra gli esperti, c'è solo una proposta: "spegnete l'internet che fa male". Invece gestire info complesse è il "saper leggere e scrivere" del 2016. Altrimenti stiamo delegando a Google e FB il ruolo che avevano un tempo gli scrivani nei paesi: leggevano e scrivevano le lettere per conto degli ignoranti. Non supplivano alla necessità di alfabetizzazione. Che oggi, per quanto riguarda il web, è la priorità.