Sui social ciò che sembra è - elogio della percezione

di Bruno Mastroianni


In questi giorni un amico ha raggiunto un bel risultato grazie a una campagna di crowdfunding sui social e, nonostante la bontà della notizia, ha ricevuto diversi commenti fuori luogo sui suoi spazi online anche dagli amici. Quando succedono cose del genere la tipica reazione che abbiamo è quella di provare disagio nel sentire raccontare da altri il nostro mondo con parole e criteri che non sono adatti. Viene da dire: "non capiscono", "sono superficiali", "non hanno tutti gli elementi eppure scrivono”, ecc.

Questo disagio però, seppure fondato, può essere nemico della comunicazione. Fermarsi ad esso infatti può essere un alibi per non pensare alla parte che ci spetta ogni volta che entriamo in relazione online: farci capire nelle condizioni date, così come sono.

L'alibi della lacuna altrui

La tendenza a vedere gli altri “colpevoli di qualche mancanza” può diventare una rinuncia ad impegnarsi proprio nel lavoro di relazione. La qualità dei giudizi altrui, infatti, non è in nostro potere e rispondere al pregiudizio con un giudizio su di esso non serve a molto. Ben più realistico investire le energie su ciò che è alla nostra portata: farci capire proprio a partire da eventuali fraintendimenti.

In altre parole la mentalità, il linguaggio, i presupposti culturali, perfino i pregiudizi degli altri connessi con me non sono per forza da liquidare come ostacoli alla comprensione. Possono invece essere il punto di partenza su cui lavorare per farsi capire. 

Le percezioni: essenza dei social

I social di fatto non sono altro che interazioni basate sulle percezioni di qualcuno che vengono condivise con altri ancora. La materia minima ineliminabile insomma è la percezione. Se si dimentica questa realtà, se la si rifiuta, se ci si appella ad altri fattori (ad esempio: "gli utenti dovrebbero approfondire”) si esce dal campo della comunicazione e si entra in altri terreni - ad esempio quello educativo - dove è lecito discutere e elaborare modi per aumentare consapevolezza e competenze al di là delle impressioni. 

In comunicazione non è possibile. Perché, piaccia o no, si deve sempre partire dalla percezione dell’altro. Per questo dico: ciò che sembra è. Se la percezione dell’altro è diversa, non posso limitarmi a dire che è cattiva, buona, mediocre, devo piuttosto dedicarmi a conoscerla e prenderne atto perché contiene il codice che mi permetterà di farmi capire. O mi inserisco in quel modo di vedere e riesco a sembrare esattamente ciò che sono a quegli occhi, con le loro caratteristiche, oppure sono destinato a non comunicare. 

Ciò che sembra è 

Sui social la differenza tra sembrare ed essere non può fare da alibi. Sottolineo: sui social non in altri campi. Se online litigo perché non mi capiscono, sono ciò che sembro: litigioso. Non sono uno che ha ragione o torto ma uno che litiga. Se sono paziente anche se non mi capiscono, sono ciò che sembro: paziente. E così via. 

Capire questo è cogliere un’occasione: si può lavorare per sembrare esattamente ciò che si è, per essere se stessi agli occhi dell’altro. E lo sforzo spesso porta a conoscersi meglio. 

Diversi, di fronte allo “scoglio” della percezione altrui, decidono di scegliere la strada della manipolazione per sembrare qualcosa che non sono, per piacere. Altri scelgono lo scontro eroicamente tragico: affermano ciò che ritengono giusto senza preoccuparsi di essere capiti o meno (e di solito scatenano guerre). Ma queste non sono le uniche alternative. C'è anche la possibilità di impegnarsi per sembrare (cioè essere) se stessi agli occhi dell’altro.

Persone non messaggi

Ecco la questione: sui social non abbiamo un prodotto da vendere né una teoria tra le altre da diffondere; e lo scopo non può nemmeno ridursi a intercettare l'interesse o i gusti degli interlocutori (come nello schema di comunicazione dei media classici). Sui social ci siamo e ci sono gli altri. Più che messaggi efficaci, interazioni tra persone.

Eventuali pregiudizi, incomprensioni e superficialità, vanno presi perciò sul serio. Perché rispondono a qualcosa che - positivo o negativo che sia - viene dal dall’uomo, dalla sua parte più interiore. Anche troll e hater in fin dei conti polemizzano esprimendo un qualche disagio umano.

È qualcosa di molto diverso dal "sondaggismo" che per molto tempo ha governato le modalità di comunicazione, spingendo a strategie di posizionamento in base al rilevamento della percezione del pubblico.

Ci vuole molto di più. Occorre individuare forme di espressione capaci fare appello alle più nobili aspirazioni umane anche quando chi è coinvolto nel processo comunicativo non le ha attivate. Occorre essere disposti a farsi coinvolgere, con   pazienza, nei dubbi e nei rilievi, ponendosi le domande assieme a chi le pone (anche quando sono sgradevoli), è essere umili e preparati su ciò che si dice, è essere autentici e trasparenti, è dire ciò che si pensa trasmettendolo assieme alla stima verso le capacità umane dell'interlocutore. 

Non è una strategia. È vita sociale. È lo sforzo di chi, visto che si è lanciato nella conversazione online, cerca di sembrare il più possibile ciò che è: uno che cerca di confrontarsi con l'altro.