Discutere fa bene alle relazioni 


Intervista di Paolo Pegoraro, Credere agosto 2017
Vi ricordate Napalm51, la parodia dell’attivista social impersonata da Maurizio Crozza? È il prototipo dello hater (in inglese, odiatore, ndr) che spara a zero contro tutti. Beh, c’è un piccolo Napalm51 dentro ognuno di noi. Ce lo svela Bruno Mastroianni, giornalista e social editor, nel suo La disputa felice, un utile manuale per dissentire senza litigare online. Un pamphlet che è anche un inno al valore della differenza. «La capacità umana più alta è quella di entrare in relazione con chi è diverso da noi, invece che abbatterlo», spiega. «Viceversa, perdiamo umanità stando in gruppi troppo omogenei: si diventa degli imitatori, con linguaggi in codice, parole chiavi, problemi ristretti... Impoveriamo le nostre capacità culturali e intellettuali».
Da dove è nata questa riflessione? 
«Anni fa ho iniziato a lavorare negli uffici stampa in condizioni di pregiudizio verso l’istituzione che rappresentavo, ad esempio come portavoce dell’Opus Dei. Lo scontro era spesso la prima forma d’incontro: è stata una grande esperienza di dibattiti mediatici pubblici».
Che cosa è cambiato con il web 2.0? 
«Le dinamiche che si replicavano sui social network sono le stesse, solo che riguardano... tutti. Ho pensato che le competenze di un addetto stampa potessero essere utili all’uomo di strada, costantemente messo alla prova su quello che crede e pensa».
Parla degli haters come della «vera rivoluzione del web». Quasi degli eroi? 
«Gli haters non sono una popolazione speciale, siamo io e te. Ognuno di noi detesta qualcosa o qualcuno. E i litigi sul web sono un segnale di libertà: possiamo discutere con chiunque, anche con personaggi importanti. Certo, è una libertà che si esprime in maniera scomposta, per- ché i social non hanno una selezione all’ingresso. Ma pensiamo a com’era prima. La comunicazione in mano a pochissimi, illusi di controllare quello che le persone pensavano. Oggi abbiamo la grandissima occasione di guardare in faccia tutto... persino l’odio».
Lei ha vissuto una “conversione” comunicativa? 
«La disputa felice l’ho vissuta sulla mia pelle. Ero il primo ad avere la ragione e la verità in tasca e a sbatterla in testa agli altri. Con il tempo, mi sono reso conto che questo atteggiamento serve solo a ottenere il favore di chi già la pensa come te: è come essere il campione della tribù».
In pratica, un meccanismo di autoconferma... 
«Esatto. E ho ammesso che dove reagivo in maniera sferzante, sarcastica o dura, era perché io stesso avevo buchi o lacune nelle mie argomentazioni. Facendomi attraversare dal dubbio e dalle provocazioni dell’altro, ho cominciato a scoprire nuovi elementi che spesso rendevano la mia convinzione di partenza più solida e rigorosa. Conosciamo molto di più se mettiamo alla prova le nostre convinzioni! Anzi, la conoscenza è sempre un po’ cambiare idea».
Tempo fa ha lanciato l’hashtag #Francescoterapia. Cosa ha si- gnificato per te papa Francesco comunicatore? 
«Per me Francesco è, soprattutto, un terapeuta. Ci sta guarendo da tante malattie che ci portiamo dietro. Ci sta guarendo dal mito che le cose si vedano meglio dall’alto, a distanza... Invece per Francesco le cose le vedi bene solo da vicino, quando senti che odore hanno. Una persona non la conosci dal suo curriculum, ma s orando la sua pelle. Penso a Lampedusa, il suo primo viaggio: ci ha portati tutti lì con sé. Ogni volta che vogliamo capire qualcosa, dobbiamo entrarci dentro, sporcarci le mani, sentire che aria tira: è questa la “Francescoterapia”».
Papa Francesco è un “disputatore felice”? 
«La “Francescoterapia” è ciò di cui parlo nel libro. La via per riuscire a discutere senza litigare è quella di entrare nel mondo dell’altro e lasciare entrare l’altro nel nostro mondo. È prendere sempre sul serio l’altro, anche quando esprime le sue perplessità in modo ostile. È un invito a prendere sul serio i sogni e le paure della “pancia” del popolo, perché se le irridiamo e sminuiamo le regaliamo ai populismi».
Ma a noi piace litigare? Guardando tv, web e giornali, pare di sì... 
«Il litigio è la forma più a buon mercato per raccontare le cose. È istintivo, dà la sensazione di essere forti, ma sfido chiunque a dire che dopo una litigata su Facebook è stato felice. Invece, quando si cerca di mantenere la relazione con l’altro, piuttosto che chiudergli la bocca, c’è più fatica, si passa per l’umiliazione di riconoscere i limiti del nostro sapere, ma alla fine c’è una soddisfazione più grande».
Nella Chiesa bisogna imparare a litigare? 
«Occorre imparare a discutere. Gesù non tronca la relazione neppure con Giuda, discute con quelli che lo accusano, risponde perfino al demonio. Non c’è nessuno di cui Gesù dica “Io con quelli non ci parlo”. La relazione con l’altro viene prima ancora dello stabilire chi ha ragione o torto. La capacità di avere a che fare con chi “non è nel giro giusto” è, io credo, il cuore del cristianesimo. Proprio per questo il litigio tra cristiani è una controtestimonianza, perché assolutizza le idee e dimentica la persona. E questo è l’anti-Vangelo».
L’hater ti direbbe che è un discorso relativista... 
«Invece è proprio il contrario. Se ho davanti a me una persona in carne e ossa, e mi interrogo sul suo bene concreto, è ben difficile relativizzarla! Invece è facilissimo relativizzare le idee e soprattutto l’idea del bene. Provocatoriamente: anche Hitler aveva una sua “idea del bene”, la questione è vedere cosa fa questa “idea” alle persone per realizzarsi. Il vero assoluto è la persona».
E se il litigio infuria comunque? 
«Si può tornare indietro dagli errori: chiedendo scusa, ridendo di se stessi, ammettendo: “Ho esagerato! Ho perso la pazienza! Che sciocchezza che ho detto!”. Questo rivivifica la relazione. Rende amabili. A volte chiedere scusa dopo lo sbaglio è meglio che non sbagliare mai».