Quello che l'elezione del Presidente ci insegna sulle discussioni reali



In questi giorni, per ragioni di lavoro, mi sto occupando delle elezioni del Presidente della Repubblica. Sto leggendo tutto, vedendo tutto ciò che passa in tv, in radio, sui social in una specie di tempesta di dichiarazioni, contro-dichiarazioni, passi in avanti, passi indietro, passi di lato e contrappassi.

La prima tentazione, lo ammetto, è stata lo sconforto, lo sdegno, il farmi trascinare dal pessimismo e fastidio che inevitabilmente respiro sorbendomi il gigantesco flusso dei commenti sui social e delle reazioni della gente. Sì perché anche al bar o nella (poca) vita sociale, dopo 16 ore di notizie al giorno sul Quirinale, alla fine non fai altro che parlare di quello.

Ma poi sono rinsavito. Sì perché, a un certo punto, ho iniziato a guardare la situazione da un punto di vista meno presuntuoso, più umile e aderente alla realtà. Ho notato, infatti, che nelle nostre esternazioni indignate sono all’opera una serie di riflessi idealistici e aspettative esageratamente perfezioniste su come dovrebbero andare le cose.

È un atteggiamento che ho registrato più volte nei confronti di qualsiasi discussione: tendiamo a giudicare i confronti molto peggio di quanto non siano, perché ci aspettiamo che assumano la forma di relazioni angeliche tra intelletti superiori capaci di fare tutte le mosse adeguate e rispettose per capirsi e trovare una mediazione. È curioso che nessuno di noi in vita sua abbia mai assistito a una discussione simile. Ogni tipo di articolazione del dissenso, infatti, è sempre sbilenca, imperfetta, farraginosa e faticosa.

Eppure pretendiamo che, per decidere una cosa così complessa come la futura massima carica dello Stato, le cose vadano in modo diverso. È come se avessimo un metro di giudizio così alto da scontentarci comunque e sempre, al di là di come si mettano le cose.

Insomma, credo che quello a cui stiamo assistendo sia proprio un esempio particolarmente interessante di discussione reale e come tale va preso. Anche perché non appena si abbandona lo sguardo severo e astratto, appaiono una serie di spunti piuttosto significativi.

Quelli che sto notando in queste ore sono fondamentalmente tre:

1. In democrazia la forma è sostanza: non bastano i risultati, quello che conta è il processo attraverso cui i risultati si raggiungono. Quello che stiamo vedendo accadere è dovuto al fatto che a essere rilevante non è l’accordo tra le forze in sé, ma il percorso che porterà a quell’accordo. Sarà esso a dare forma e sostanza all’Italia del prossimo futuro. Il percorso – che piaccia no, che sia bello o brutto, faticoso o meno – va fatto tutto.

2. La democrazia si giudica da come si articola il dissenso, non solo da quanto pesa il consenso. Finché si va tutti d’accordo non si ved bene come stanno le cose. Appena è sorta la “questione Quirinale” è apparso più chiaro a che punto eravamo davvero. Può infastidire, perché non è gradevole ciò che si vede, ma è meglio che rimanere annebbiati. Guardare dove sta il dissenso è la pista migliore per avvicinarsi alla realtà di una situazione.

3. In democrazia l’orizzonte non può che essere il provvisorio, l’approssimativo, il “fin qui” che sono le uniche categorie che ammettono la libertà e la partecipazione. Guai a pretendere l’universale, il durevole o la parola “fine”: tutti orizzonti incompatibili con le due dimensioni precedenti. Nei regimi, infatti, i risultati non hanno bisogno di processi (chi decide ottiene e non rende conto a nessuno), il dissenso non ha spazio (si silenzia, non c’è bisogno di articolarlo), ma soprattutto ogni cosa è definita, universalmente valida, chiusa, impacchettata, non discutibile appunto.

Ora, se sostituiamo alla parola “democrazia” la parola “discussione” ci accorgiamo che sono analoghe quanto alla struttura fondamentale attraverso cui giudicarle. La discussione “così come è” (depurata da sguardi troppo idealistici) ci può insegnare molto più di quanto sembra sul nostro modo di entrare in relazione quando abbiamo prospettive e visioni differenti.

Le dispute reali, quelle che facciamo tutti i giorni, si possono giudicare proprio secondo gli stessi tre criteri che emergono da questa macro discussione sul futuro Presidente:

- Si punta ad avere ragione (il risultato) o si è disposti a fare il percorso che porta a rendere convincente e accettabile agli occhi degli altri la propria opinione?

- Dove sta il dissenso? Emerge, trova ascolto, porta a modificare le argomentazioni? È da quello che si può giudicare il reale valore del confronto.

- Ciò che guida lo scambio è il porre fine a una questione o la disposizione a muoversi non sapendo prima dove si andrà a parare? Senza l’apertura ad approssimazioni successive siamo di fronte a pure affermazioni sorde di verità concluse che non necessitano dell’intervento di nessuno.

Aggiungerei un ultimo criterio che, lo so, può suonare scioccante in questo momento, ma va affrontato: le discussioni talvolta possono avere come unico esito uno stallo che non porta da nessuna parte. Anche in quel caso avranno avuto comunque una funzione: far capire che non c’è verso di trovare un accordo.

Per tutto il resto c’è il sogno di discussioni perfette, ideali e angeliche, a cui però non potremmo assistere almeno finché viviamo da questo lato “terreno”dell’esistenza.