L'autoironia salverà l'uomo, animale social

di Bruno Mastroianni, ToscanaOggi, 30 settembre 2018


Una pagina bianca. È con una diapositiva così, vuota, che spesso io e la mia collega sociolinguista Vera Gheno iniziamo le nostre lezioni sulla comunicazione nell’era digitale. Usiamo questa immagine come copertina dicendo: “ecco cosa sono il web e i social!”. La nostra è chiaramente una provocazione con la quale invitiamo a riflettere sul dibattito pubblico che mette la rete al centro di tutti i problemi e dei disagi della nostra società. Noi, di fronte a quel tipo di narrazione apocalittica, diciamo: il web a cui attribuiamo tutte le responsabilità in realtà non c’è, non esiste di per sé, perché quel web non siamo altro che noi, esseri umani, in connessione.

Facciamoci caso: nella relazione tra essere umano e dispositivi tecnologici, la maggior parte delle volte ci viene spontaneo rivolgere tutta l’attenzione agli strumenti e ai mezzi. Parliamo molto di smartphone (se dobbiamo o non dobbiamo farlo entrare nelle scuole, se opportuno disintossicarsene perché ne abusiamo) oppure ci concentriamo sulle piattaforme (Facebook e i suoi algoritmi più o meno manipolativi, Instagram e i selfie che sono una mania per i giovani, ecc.), tanto che, a poco a poco, abbiamo dato una consistenza sempre più autonoma agli elementi tecnologici mettendoli al centro dei discorsi (di solito allarmati), trascurando progressivamente l’elemento che nella relazione è, invece, quello più importante: l’uomo e il senso che dà alle azioni che compie nella sua vita connessa.

Il problema infatti non è mai nello smartphone: i dispositivi funzionano benissimo. Non è nemmeno nelle piattaforme social che perseguono i loro scopi commerciali attraverso algoritmi che compiacciono i nostri interessi: davvero ci aspettiamo che siano Facebook o i grandi della tecnologia a doverci aprire la mente per spingerci a diventare più critici, più riflessivi, meno narcisisti? Anche considerando le strategie manipolatorie di comunicazione digitale che alcuni adottano per ottenere consensi: davvero crediamo che approfittare della situazione per ottenere vantaggi sugli altri esseri umani sia una questione tecnica dovuta al web? L’attenzione va piuttosto rivolta all’altro lato della relazione, alla parte vicina, a “chilometro zero”: quella umana.

È per questo che al Festival “Il senso del ridicolo” a Livorno abbiamo portato con Vera Gheno un intervento sulla “Fattoria degli animali social”. Abbiamo voluto proporre una riflessione sui tic e i comportamenti più goffi che si trovano in rete ed elaborato una tipizzazione faunesca, facendo eco al capolavoro di George Orwell. Il nostro percorso però è opposto: nel romanzo, gli animali, una volta preso il potere, finivano per diventare sempre più simili all’uomo che li opprimeva; nel nostro ragionamento mostriamo invece come l’uomo, dotato del potere della tecnologia, finisca per tirare fuori i suoi istinti più animali.

Così, nella nostra fattoria social ci sono i classici, come “l’elefante nella cristalleria”, che interviene a sproposito nei discorsi degli altri, o “il pavone”, che con i suoi selfie mostra solo il suo lato migliore (e quando lo/la incontri dal vivo è una sicura delusione), fino ad animali più particolari come “il triceratopo”, capace di indignarsi e di scatenare polemiche anche su ciò che non esiste (questo animale nasce dal caso della foto di Steven Spielberg ritratto davanti al pupazzo di un triceratopo sul set di Jurassic Park scambiato per un cacciatore che si vantava della sua preda). L’intento non è l’ennesima forma di invettiva contro l’uso sproporzionato della tecnologia, è il contrario: scoprire il lato ridicolo di quei comportamenti non serve a stigmatizzarli, ma a riconoscersi in essi. Perché a fare gli elefanti che non pesano le parole, i pavoni che nascondono i propri difetti dietro a un’inquadratura e i triceratopi pronti a reagire ancora prima di capire non è un distante “popolo dei social”, siamo proprio io e te con il nostro smartphone in mano ogni volta che interagiamo online.

In un mondo complesso e iperconnesso, in cui la tecnologia sembra farla da padrona e a volte suscita in noi paure ancestrali sul dominio della macchina sull’uomo (a proposito di reazioni un po’ primitive), a nostro avviso c’è una via maestra di uscita, antica e saggia, e forse per questo innovativa: l’autoironia. Non l’invettiva apocalittica degli scettici che rende ipersensibili ma immobili, e nemmeno il sarcasmo dei guru digitali entusiasti che disprezzano l’imperizia altrui e rafforzano il loro ruolo di detentori unici della conoscenza; dobbiamo tornare invece alla buona sana vecchia capacità di ridere di noi stessi, che è l’unico modo per ricordarci dei limiti che abbiamo, proprio nel momento in cui la tecnologia ci dà potere. È infatti il riconoscimento dei limiti che fa maturare nell’uomo la domanda di senso autentica, da sempre il miglior antidoto alle oppressioni e alle facili esaltazioni del potere.

L’autoironia salverà il mondo. Soprattutto nei nostri giorni. Perché aiuterà a vedere che dietro mille nomi preoccupanti che diamo alle sfide attuali - tra hacker russi, algoritmi, elezioni condizionate dai social e guerre per la profilazione dei dati - alla fine ci siamo sempre noi, esseri umani, alle prese con quella pagina bianca da scrivere che è il significato che vogliamo dare alla nostra vita iperconnessa.