La disputa davvero felice è continua - ovvero lo stato di salute della società plurale


Non esistono temi che non si possano discutere. Non ci sono idee o concetti “evidenti di per sé” che non meritino di essere esplorati, spiegati, rivisitati, argomentati nuovamente. Non esiste chi possa dire “questa questione è definitivamente chiusa”. Essere umani è essere disputanti.

Lo stato del dibattito pubblico oggi può far pensare che stiamo degenerando. I temi controversi che suscitano litigi infiniti ci affaticano, danno la sensazione che non si possa arrivare a ragionare, a pensare, a capire qualcosa di più, e che ci si debba accontentare di continui bracci di ferro.

Temi cruciali per la nostra società come la salute, le migrazioni, le diverse tecniche scientifiche che sollevano problemi etici, quando si riducono a scontri tra tifoserie o a vessilli per chiamare alle armi comunità sempre più chiuse, ne paghiamo tutti le conseguenze in termini di impoverimento intellettuale, culturale e sociale.

Sarebbe un errore pensare che questo dipenda solo da soluzioni dall’alto, da eventuali politiche per il dibattito sano (potrà mai qualcuno regolamentare per legge il nostro rapporto con il sapere?), né sarà mai solo una questione tecnologica di algoritmi, sistemi di controllo delle notizie o filtri per evitare odio e bufale. Gran parte del lavoro spetta agli attori in gioco: i singoli, le famiglie, le scuole, le associazioni e i corpi intermedi, le istituzioni, tutti dovrebbero dotarsi di programmi per favorire dispute piene di senso.

È come la tutela dell’ambiente: ci vogliono politiche che la favoriscano, ma poi ci vuole una cultura che penetri nella società e faccia sentire un po’ tutti responsabili in prima persona. La dinamica dei fronti opposti sordi al confronto parte dal piccolo delle nostre interazioni quotidiane. A cominciare da tutte le volte che entriamo in discussione su ciò che non conosciamo bene, che non abbiamo approfondito o su cui, semplicemente, non abbiamo riflettuto abbastanza.

È da questa mentalità del “tanto non importa” che si creano l’odio, gli scontri, i fraintendimenti. Invece l’influenza che si può avere nelle interazioni è enorme, più potente di qualsiasi effetto mediatico esteso su larga scala. A maggior ragione oggi che non siamo più soggetti “fuori” o “dentro” i media, ma siamo i media stessi (come dicono Ceretti e Padula in Umanità mediale): con uno smartphone in mano possiamo espandere quanto mai la nostra capacità di confronto e di influenza sugli altri.

Ci sono dei temi che non possiamo più affrontare con superficialità, a colpi di schieramenti e battute, liquidandoli con disinvoltura. Dietro quei temi ci sono persone, mondi, vite, aspirazioni, aspettative. Dietro quelle questioni c’è in che modo affronteremo il presente e il futuro della nostra società.

Pensare che questi siano solo problemi di linguaggio inclusivo o di politically correct, o che siano gli esiti di una lotta politica in cui potrà vincere chi ha la maggioranza, è non vedere lo scenario in cui siamo immersi in Occidente: non siamo più in una società coesa che condivide i valori di fondo, ma in una realtà plurale e multiculturale in cui agenti diversissimi sono impegnati in un costante confronto tra le loro visioni del mondo. Affrontare questi confronti esistenziali con il dovuto impegno e con la dovuta intelligenza relazionale (in una parola: disputando in modo felice) è una delle strade per trasformare lo scontro tra identità in prove di collaborazione tra esseri umani.

A tutti piacerebbe delegare a qualcuno questo compito, trovare un’autorità che decida o delle ricette che possano chiudere le questioni (possibilmente rispondendo ai nostri gusti). Non accadrà: la disputa, per essere davvero felice, non può che essere una #disputacontinua.