Brandizzare le idee non è una buona idea

di Vera Gheno e Bruno Mastroianni


Tutto è gara, tutto è una corsa a “l’ho detto prima”, “l’ho detto meglio”, “quell’idea è mia”... È la brandizzazione delle idee, ossia la convinzione che le idee abbiano una sorta di marchio registrato: l’ho già detto io e nessun altro può dirlo. Te lo dico io, casomai a pagamento.

Questa visione si è diffusa soprattutto a causa della conversazione globale e orizzontale ingenerata dai social, che porta a gestire gli scambi di idee non per quello che sono, ma come un luogo di concorrenza o una potenziale minaccia al proprio brand. È una deformazione che, più o meno, ci portiamo tutti dentro, e che emerge al momento di confrontarci su qualsiasi questione. Tendiamo a trattare le nostre conoscenze, intuizioni e opinioni come se fossero prodotti su un mercato in cui è necessario sempre arrivare prima e meglio degli altri, difendersi da concorrenze sleali e dalle imitazioni, assicurarsi di essere sempre i leader del settore. “Già lo dicevo 10 anni fa...”, “ho avuto io per primo l’idea nell’84…” Quante volte nei commenti o nei post, soprattutto degli esperti, trapelano questi meta-messaggi in toni più o meno piccati con tanto di link ai propri blog, slide, ecc.?

L’idea di fondo è che, affinché un’idea si affermi, ci sia bisogno anzitutto di sconfiggere la concorrenza. Se ci pensiamo, è un approccio destinato al fallimento: il pensiero, infatti, non segue logiche di mercato, e le opinioni non sono prodotti. Al contrario, ogni conoscenza è tale e cresce nella misura in cui si aggancia ad altre conoscenze e prospettive: la conoscenza è una rete. Quando pensieri simili da una parte e divergenti dall’altra si incontrano e si compenetrano, quando vengono usati - e talvolta modificati - da una moltitudine di interlocutori in diversi modi, anche incontrollabili, è lì che si genera davvero cultura, si opera un cambiamento, un passo avanti che trasforma il modo di vedere la realtà. Insomma, l’efficacia del pensiero si misura dal momento in cui non è possibile controllarne la diffusione e i risvolti. Tutt’altro che prodotto esclusivo legato a un brand (in questo caso l’opinatore), il pensiero è davvero tale quando ha effetti che vanno di gran lunga oltre le possibilità di diffusione che avrebbe immaginato il suo proprietario.

E questo da sempre: chi studia sa che fin dall’inizio della riflessione umana è già stato detto e posto quasi tutto. La storia dell’evoluzione del pensiero, insomma, assomiglia molto più a una costante rielaborazione e trasformazione di cose già dette che a una serie di prodotti unici e innovativi assenti fino a quel momento dal mercato. Quindi non solo è possibile, ma molto probabile che qualcuno, da qualche parte, in qualche modo abbia già detto, scritto, enunciato, dichiarato quello che noi pensiamo di avere detto, scritto, enunciato e dichiarato per primi.

Certo, se possibile occorre sempre dare credito ai giganti sulle cui spalle, metaforicamente, ci stiamo arrampicando: la progressione della conoscenza passa anche dal giusto riconoscimento delle idee altrui, per poi partire a costruire da esse. Ciononostante, come pensatori di ogni campo, prepariamoci anche a fare i conti con le conclusioni analoghe alle nostre di altri che non ci conoscono affatto.
Sarebbe bello riuscire ad allearsi tra coloro che fanno iniziative e riflessioni simili: questo darebbe una grande forza alle istanze portate avanti, una forza tersa, pulita. La forza dell’idea che supera le divergenze superficiali, le antipatie personali, le rivendicazioni di bollini blu e di “l’avevo detto io, ecco il link al mio articolo del 1982…”

Troppo spesso, invece, nel nostro paese ma non solo, si cerca di “brandizzare” la conoscenza, tarpandole di conseguenza le ali e facendola diventare una “garetta” al diritto di prelazione, al poter dire “quel pensiero è roba mia”. Finendo per indebolire la sua portata globale.

Proprio il fatto che ognuno pensa con il suo approccio, stile e ambito disciplinare, è un punto di forza, o forse il punto di forza. Non un motivo di lotta. Le vere ondate culturali generative sono sempre plurali e “incontrollate”. Tutto serve, tutto fa brodo, guai se pensassimo mai che problemi complessi possano avere soluzioni uniche o standard. Quello che serve è soprattutto continuo scambio e commistione tra diverse idee, modalità e prospettive. Diffiderei di chi ha “la soluzione” che esclude altri, mi affiderei piuttosto a chi sta proponendo riflessioni per confrontarsi...

In un vecchissimo numero di Dylan Dog, qualcuno racconta di come sia quasi impossibile mettere piede su un pezzo di terreno ancora non calpestato dall’uomo. Succede talmente di rado che quando capita, vengono aperti portali verso altre dimensioni. È un po’ così anche con la conoscenza: quasi sempre stiamo dicendo cose già dette; casomai, la vera differenza ce la mettiamo noi, con la nostra irripetibilità e unicità. Questo non esclude che ogni tanto possa anche succedere di aprire varchi dimensionali; raramente riusciremo a monetizzarlo sul momento, possiamo forse piuttosto sperare in un riconoscimento postumo: diventeremo un mattone importante dello ziqqurat della conoscenza globale, in costante costruzione.

Detto questo, dichiariamo nostra l’idea della brandizzazione della cultura, e quindi da questo momento in poi se volete usare questo pensiero dovrete pagarci i diritti.